In quella notte senza luna, a motori spenti per non farsi intercettare, il giovane comandante della motosilurante PT-109 si trovò in una situazione cinematica assolutamente assurda. Faceva parte di un gruppo di 15 motosiluranti guidati dal lt. comdr. Thomas G. Warfield che, col senno del poi, aveva gestito la missione in maniera dilettantesca.
Il gruppo era stato inviato missione di pattugliamento e interdizione nello stretto di Blackett, attraverso il passaggio Ferguson, lungo le rotte di rifornimento giapponese della rotta denominata in codice Tokio Express.
Un rapporto dei servizi d’informazione aveva segnalato che cinque incrociatori nemici avrebbero fatto rotta quella notte dall’isola di Bougainville, attraverso lo stretto di Blackett, dirette a Vila, e le motosiluranti uscirono per intercettarli, sfruttando le ore notturne. Gli attacchi non andarono a buon fine, anzi furono alquanto maldestri.
Durante la missione otto motosiluranti lanciarono 30 siluri senza riuscire a colpire nessun bersaglio.
Tra l’altro, dall’esame degli ordini di operazione, non era stata nemmeno prevista una procedura di emergenza nel caso in cui uno dei PT fosse stato colpito. In pratica, le motosiluranti ricevettero l’ordine di lanciare i due siluri in dotazione e quindi rientrare alla base. Di fatto fu quello che avvenne: le imbarcazioni dotate di radar spararono i loro siluri per prime e si allontanarono senza dare supporto alle rimanenti, come la PT-109, che rimasero senza assistenza radar e non furono informate che altre unità avevano già impegnato in combattimento il nemico. Per cui tre motosiluranti, PT-109, PT-162 e PT-169, continuarono a pattugliare per intercettare otticamente il nemico.
Verso le 02:00 del 2 agosto 1943, una notte senza luna, il PT 109 spense il motore per evitare il rilevamento della scia da parte degli aerei giapponesi. Improvvisamente si accorsero di trovarsi sulla rotta del cacciatorpediniere giapponese Amagiri (foto), che stava rientrando a Rabaul. Il PT-169 lanciò due siluri contro l’Amagiri (che andarono a vuoto) mentre il PT-162 non riuscì nemmeno a farli partire e si allontanò. Il PT 109 non fece in tempo ad accendere il motore e fu speronato dal cacciatorpediniere giapponese che procedeva ad oltre 23 nodi.
Il 109 fu colpito sul lato di dritta con un angolo di 20 gradi, e l’urto tranciò un pezzo della barca. Nel dopoguerra, il comandante dell’Amagiri, il capitano di corvetta Kohei Hanami, ammise che lo speronamento fu intenzionale, favorito dalla situazione. Le ore successive sottolinearono come la missione fosse stata gestita malamente dal comandante Warfield, che aveva delegato ai giovani comandanti come gestire il tutto, non prevedendo nemmeno eventuali procedure di ricerca dei sopravvissuti nel caso in cui una nave fosse stata persa.
Il capitano di vascello Robert Bulkley, storico navale, scrisse che quella fu forse l’azione più confusa e meno efficace eseguita dai motosiluranti di pattugliamento. Ben otto PT lanciarono 30 siluri senza ottenere alcun risultato.
Quando il PT-109 fu speronato, intorno alle 2:27 del mattino, si generò una colonna di fuoco alta 30 metri, ed il carburante si riversò in mare, causando un incendio nelle acque circostanti. Due marinai, Andrew Jackson Kirksey e Harold William Marney, perirono sul colpo ed altri due membri dell’equipaggio rimasero gravemente feriti e ustionati, cadendo nel mare in fiamme che circondava la motosilurante.
Il comandante riuscì a salvare il MM1 (motorista di 1ª classe, ndr) Patrick McMahon, il membro dell’equipaggio con le ferite più gravi, che includevano ustioni che coprivano il 70 percento del suo corpo, e lo portò sulla prua che ancora galleggiava. Poi si lanciò nuovamente in acqua salvandone altri due. Gli undici sopravvissuti si aggrapparono alla sezione di prua del PT-109 per dodici ore mentre il relitto galleggiante vagava alla deriva, dirigendosi lentamente verso sud.
Verso le 13:00 del 2 agosto, lo scafo incominciò ad imbarcare acqua e il comandante si rese conto che sarebbe presto affondato. Decise quindi di nuotare verso una minuscola isola deserta. Si chiamava Plum Pudding, ma gli uomini la chiamavano “Bird Island” a causa del guano che ricopriva i cespugli. Non tutti erano in grado di nuotare con destrezza, anzi alcuni non sapevano farlo, e posero una lampada, le scarpe e … “i non nuotatori” … su uno dei travi galleggianti, iniziando a spingerlo verso l’isola.
Il comandante, che era stato nella squadra di nuoto della Harvard University, usò una cinghia del giubbotto di salvataggio stretta tra i denti per trainare il marinaio ferito più gravemente.
Ci vollero comunque quattro ore per raggiungere a nuoto l’isola, a circa tre miglia di distanza, tra correnti insidiose e la costante paura di essere attaccati dagli squali, attirati dal sangue dei feriti.
L’isola aveva un diametro di soli 91 metri, e non forniva possibilità di sopravvivenza, ovvero né cibo né acqua. L’equipaggio esausto si trascinò dietro la linea degli alberi per nascondersi dalle chiatte giapponesi di passaggio. Il quattro agosto si trasferirono, nuotando quasi quattro miglia, a sud dell’isola di Olasana, combattendo contro una forte corrente, dove trovarono noci di cocco mature, anche se non c’era acqua potabile.
Il giorno seguente, il 5 agosto, il comandante e il guardiamarina Ross, nuotarono per un’ora fino all’isola di Naru, dove trovarono una piccola canoa, pacchetti di cracker e caramelle ed un bidone da cinquanta galloni di acqua potabile lasciato dai giapponesi.
Sull’isola di Olasana incontrarono degli osservatori melanesiani con cui il giovane comandante riuscì a scambiare poche parole e, soprattutto a convincerli che erano americani. Questi portarono alcune patate dolci, verdure e sigarette dalla loro piroga e aiutarono l’equipaggio ormai allo stremo, fino all’arrivo dei soccorsi, due giorni dopo.
Ora vi chiederete cosa ha di particolare questa storia... Di eventi minori come questo ne avvennero molti durante la guerra ma la cosa particolare fu che quel giovane comandante, sarebbe un giorno diventato il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy.
Un ufficiale coraggioso
John F. Kennedy, nonostante avesse problemi di salute alla schiena, grazie all’aiuto del capitano di vascello Alan Kirk, direttore dell’Ufficio dell’intelligence navale (ONI), che era stato addetto navale a Londra quando suo padre, Joseph P. Kennedy, era l’ambasciatore, fu arruolato nella Marina statunitense e fu nominato guardiamarina della riserva nell’ottobre 1941, entrando a far parte dello staff dell’Office of Naval Intelligence.
Kennedy frequentò il corso di ufficiale di complemento con la Naval Reserve Officers Training School (NROTC), presso la Northwestern University, da luglio a settembre 1942, e dopo la laurea fu assegnato al Motor Torpedo Boat Squadron Training Center di base in Rhode Island. In dicembre fu nominato comandante della motosilurante PT-101, appartenente al Motor Torpedo Boat Squadron FOURTEEN, schierata a Panama.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Kennedy chiese di essere assegnato in zona di operazioni e, il mese successivo, fu assegnato al comando del PT-109 nelle Isole Salomone.
Durante una missione di combattimento, come ho raccontato nella prima parte, fu affondato dal cacciatorpediniere giapponese Agimari, ma riuscì a salvare quasi tutti i membri del suo equipaggio.
Per il suo comportamento, Kennedy fu in seguito insignito della Medaglia della Marina e del Corpo dei Marines per il salvataggio del suo equipaggio, ottenendo poi la Purple Heart per le ferite riportate in combattimento.
Kennedy tornò negli Stati Uniti nel gennaio 1944, ma a causa dei problemi alla schiena dovette ritirarsi dalla riserva della Marina per disabilità fisica nel marzo 1945 con il grado di tenente di vascello.
Ciononostante Kennedy restò intimamente legato alla Marina Statunitense e, nell’agosto del 1963, scrisse “Any man who may be asked in this century what he did to make his life worthwhile, I think can respond with a good deal of pride and satisfaction, ‘I served in the United States Navy,'”.
La USN non lo dimenticò nominando una delle sue portaerei, CVN-79, con il suo nome.
(articolo originariamente pubblicato su http://www.ocean4future.org)
Foto: U.S. Navy / web