Xi celebra i cento anni del partito comunista cinese

(di Antonio Vecchio)
05/07/21

Bastano i fatti a dimostrare che la cerimonia del 1 luglio in piazza Tienanmen per celebrare i cento anni del partito comunista cinese non vada letta esclusivamente come l’algida messa in scena di un tiranno al potere, ma piuttosto come il trionfo per il ritorno nel proscenio mondiale.

Un rientro in grande stile, non c’è che dire, come si conviene a una nazione che già si percepisce superpotenza globale.

Oggi la Cina è la seconda economia del mondo, la prima se consideriamo la parità di potere di acquisto; è prima per numero di brevetti nel campo dell’Intelligenza artificiale (68.720 nel 2020 contro i 59.230 USA) e rappresenta il primo creditore ed investitore al mondo.

Ha inoltre una classe media in continua ascesa, pari a un quarto di quella mondiale.

La Terra di Mezzo è anche il secondo paese per spese militari e possiede la prima flotta commerciale del pianeta, oltre alla cantieristica più importante: dal 2014 al 2018 ha incrementato il tonnellaggio della sua marineria militare di un valore pari a quello della Royal Navy britannica.

Potremmo continuare citando il PIL pro-capite, oggi pari a quello della Russia (€13.000), quintuplicato in meno di 15 anni, o l’aspettativa di vita salita a 75 anni, quando solo negli anni 70 la gente moriva ancora di fame, per dimostrare che dietro le parole dell’attuale "Timoniere" non c’era vuota retorica, ma l’orgoglio legittimo di un paese che ritorna protagonista.

D’altronde, negli ultimi due millenni, fatta solo eccezione per il XIX e il XX secolo, protagonista lo è sempre stato, e, ancora alla fine della XVIII secolo, la Cina produceva un quarto del PIL mondiale.

Le parole di Xi Jinping hanno messo in luce principalmente un senso di rivalsa e il malcelato orgoglio di chi quel momento ha fortemente contribuito a renderlo possibile. Questa nuova Cina Xi se l’è costruita pezzo dopo pezzo, in forte continuità con i suoi predecessori, come dimostra l’abito di Mao indossato per l’occasione. L’uomo, d’altronde, è profondamente conservatore, anche perché figlio di uno dei generali che con Mao hanno fatto la lunga marcia.

Dal momento del suo insediamento, ha rafforzato il partito per evitargli la fine toccata in sorte a quello sovietico, ha promosso l’ortodossia ai precetti marxisti e la lealtà alle direttive ricevute.

Ha infine imposto una ferrea disciplina interna, con un’articolata lotta alla corruzione che non ha risparmiato alte cariche civili e militari.

Non pago poi dei successi raccolti all’interno, ha saputo sfruttare le debolezze sistemiche dell’Occidente.

Sul piano della governance, preferendo con gli stati i rapporti bilaterali (lo si è visto anche in Italia con la firma del memorandum di adesione alla via della seta) a quelli, più complessi, con gli organismi sovranazionali (UE, ASEAN).

Sul versante economico, sfruttando lo status di paese in via di sviluppo, con un uso accorto del dumping, tralasciando il rispetto delle regole che l’appartenenza alla Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO) avrebbe comportato.

Va detto che tutto questo è stato ottenuto con il sostanziale avvallo dell’Occidente, secondo un tacito accordo che in cambio di guadagni sicuri e dell’accesso a un mercato di oltre un miliardo e quattrocento milioni di consumatori, ha affidato alla Cina i lavori più bassi della catene di valore globali, quelli meno ecosostenibili, con l’idea che la lenta risalita economica l’avrebbe indirizzata verso una inevitabile transizione democratica. Tutto il contrario di ciò che è avvenuto.

La fabbrica del mondo, a poco a poco, si è impadronita di livelli sempre più alti di quelle stesse catene di valore, e sfruttando i vantaggi competitivi offerti dall’abbondanza di manodopera a basso costo e da una moneta debole quanto basta, nel giro di pochi anni ha sbaragliato la concorrenza di quelli che intendevano imbrigliarla.

I quali mai avrebbero pensato che alle certezze occidentali (statunitensi) in ordine al binomio democrazia-crescita economica, Pechino avrebbe invece opposto quelle di un forte dirigismo economico espressione di un’altrettanto importante centralismo democratico.

La Cina ha così acquisito il know how necessario per rendersi sempre più autonoma, al punto che oggi la tanto citata transizione energetica parla quasi esclusivamente cinese. Non solo per le materie prime (metalli rari) la cui produzione e commercializzazione è al 90% in mano a Pechino, ma anche per le tecnologiche ad essa collegate (pannelli solari, pale eoliche, batterie).

Xi Jinping ha impresso una grande velocità anche in campo militare, con il rafforzamento e l’ammodernamento delle forze armate, gravitando soprattutto sui domini marittimo e spaziale.

Non confondano i dati SIPRI1 che assegnano a Pechino il 2° posto al mondo nel 2020, per le spese destinate alla difesa. Quei 2522 miliardi, pari al 20% del budget USA, già di per se rilevanti, a parità di potere di acquisto equivalgono all’80% di quello che Washington spende ogni anno per armamenti. Una somma enorme, ancora di più se si considera che viene investita non per sostenere uno strumento globale come nel caso americano, ma uno la cui proiezione è ancora squisitamente regionale.

Il che ci porta a quello che per Pechino, al momento, costituisce ancora il principale teatro di confronto: il Mar Cinese Meridionale e Orientale, con un’attenzione allo specchio di mare che la divide da Taiwan, l’isola ribelle, il cui destino è tristemente legato alla volontà USA, ancora tutta da verificare, di difenderla ad ogni costo, anche quello di combattere una guerra potenzialmente nucleare.

A questo punto, non saremmo del tutto intellettualmente onesti se traducessimo la nostra incapacità di capire a fondo le dinamiche cinesi con una (obbligata quanto vuota) condanna morale per l’autoritarismo e la tirannia politica che esse esprimono.

Servirebbe solo a mondare la nostra coscienza, ancor più quella delle classi dirigenti che abbiamo eletto, che non hanno saputo (o voluto) comprendere sino in fondo quello che stava avvenendo in quel paese, finendo addirittura per accelerarne gli esiti.

Ancora oggi, infatti, continuiamo a giudicare gli avvenimenti cinesi con le nostre categorie, valoriali e di principio, convinti che siano riconosciute da tutti come universali.

E ignoriamo che, sebbene comunista da un secolo, la Cina è confuciana da molto più tempo: da oltre 25 secoli.

Sarebbe bastata solo questa osservazione per comprendere che qualsiasi politica di rinnovamento e di riscatto di quel paese era destinata a prendere il verso che oggi osserviamo.

In altre parole, autoritarismo politico e dirigismo economico da un lato, e un sistema di sicurezza interna sempre meno rispettoso dei diritti umani dall’altro, sono la trasfigurazione plastica del concetto di ordine confuciano, basato a sua volta sul principio di gerarchia, e quindi di autorità, incarnati oggi dal Partito (in passato dall’Imperatore).

In questa struttura, sociale e politica, ognuno è chiamato a stare al suo posto, nel rispetto di ruoli e compiti assegnati, offrendo incondizionata lealtà al potere costituito, qualunque esso sia.

Non stupisce, in questa prospettiva, che la rifondazione di Xi Jinping sia partita dalle radici culturali del Paese, vellicandone il mai sopito nazionalismo e promuovendo un nuovo patriottismo che si nutre di riscatto per le umiliazioni subite e di orgoglio per i successi raggiunti.

La storia e la cultura della Cina oggi si prestano perfettamente nell’opera di legittimazione interna del potere e per tenere saldo e unito il Paese.

Così come si presta il credo marxista - la cornice entro cui tutto prende forma - da Xi rivitalizzato come mai, con i suoi rigidi rituali atti a fornire allo Stato un cerimoniale e una narrazione, che immergono la Cina nell’attuale processo storico.

Filosofia confuciana e ideologia marxista sono pertanto gli strumenti con cui il segretario del PCC sta plasmando la sua Cina, promuovendone il modello in concorrenza con quello occidentale.

Primato delle masse verso l’individuo, centralismo democratico contro democrazia.

Il compito più grande che si è dato è probabilmente dimostrare che il patto sociale cinese funziona eccome, ed è esportabile in tutti i paesi, non solo quelli che non intendono più sottostare alle regole dell’attuale ordine internazionale che parla inglese.

Molti di essi saranno convinti dai soldi a pioggia che la Cina è pronta a versare, e dalla scarsa condizionalità richiesta per ottenerli.

Altri lo saranno per vicinanza culturale, o solo perché hanno preavvertito che il vento è cambiato.

Con la scenografia di piazza Tienanmen, e l’annunciata "irreversibilità del rinascimento cinese”, Xi Jinping non ha solo indicato al mondo che la Cina è tornata, ma che è pronta ad assumere la guida di una nuova comunità di nazioni, pronta ad affermare, una volta per tutte, un nuovo ordine internazionale, questa volta fondato su basi che guardano a Oriente.

1 Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma

2 https://www.sipri.org/media/press-release/2021/world-military-spending-r...

Foto: Ministry of National Defense of the People's Republic of China / Xinhua / presidenza del consiglio dei ministri