18 dicembre 1941 - Mediterraneo orientale - ore 18.40, il sommergibile italiano Scirè giungeva sul punto stabilito, a miglia 1,3 per 356° dal fanale del molo di ponente del porto di Alessandria, in fondale di 15 metri. La fase finale dell’operazione G.A.3 aveva inizio.
Lo Scirè, come da ordine di operazione, aveva mollato gli ormeggi a La Spezia il 3 dicembre precedente, simulando un’uscita per esercitazione ma, all’imbrunire, aveva imbarcato, in tutta segretezza, tre “Siluri Lenta Corsa”, i cosiddetti “maiali” (contraddistinti dai numeri 221, 222 e 223), nei tre cilindri a tenuta stagna appositamente installati in coperta. Ripreso il mare, l’ordine per il comandante, capitano di fregata J. V. Borghese, era stato di raggiungere Lero, dove avrebbe dovuto ricongiungersi con gli operatori dei mezzi d’assalto e attendere l’ordine di partenza alla volta di Alessandria.
Il 9 dicembre, lo Scirè si ormeggiava a Porto Lago (isola di Lero) dove imbarcava, il 12 dicembre successivo, gli assaltatori nel frattempo giunti dall’Italia via Rodi.
Dopo aver atteso per alcuni giorni i risultati delle ricognizioni aeree su Alessandria, il 14 dicembre lo Scirè riceveva l’ordine di prendere il mare per dare inizio all’operazione G.A.3.
La navigazione verso le coste egiziane aveva comportato non poche difficoltà a causa delle avverse condizioni meteorologiche e fu soltanto nel pomeriggio del 17 che il comandante della X flottiglia MAS, capitano di fregata Ernesto Forza, sulla base degli esiti della ricognizione aerea, poteva segnalare al comandante dello Scirè la presenza di due corazzate in porto e di mare calmo lungo le coste egiziane.
Nel pomeriggio del 18 dicembre, lo Scirè, in vista della costa, iniziava l’avvicinamento occulto alla base nemica. Alle ore 20.47, sfuggendo alla vigilanza britannica e ai campi minati difensivi, iniziava in affioramento le operazioni di rilascio dei tre “maiali”. Al segnale convenuto, i tre mezzi d’assalto dirigevano verso Alessandria e il sommergibile riprendeva la navigazione sulla via del ritorno, puntando prima su Lero, per poi proseguire, dopo una breve sosta, verso la base di La Spezia, dove giungerà incolume il 29 dicembre.
Il mare era calmo e non c’era vento. Nessun segno di allarme dalla base nemica. I sei uomini del gruppo d'assalto, ripartiti in tre coppie, procedevano verso gli obiettivi: il tenente di vascello Luigi Durand de la Penne (foto apertura) con il capo palombaro Emilio Bianchi, il capitano del Genio Navale Antonio Marceglia con il sottocapo palombaro Spartaco Schergat, il capitano delle Armi Navali Vincenzo Martellotta con il capo palombaro Mario Marino si avviavano a compiere un'impresa leggendaria nella storia della nostra Marina e in quella navale di tutti i tempi.
Tutto procedeva secondo i piani; quando ormai gli operatori erano in procinto di affrontare l’ostacolo più difficile, costituito dalla rete di sbarramento che chiudeva l’accesso alla base, la buona sorte arrise loro. Infatti, poco dopo la mezzanotte, una sezione mobile della rete era stata aperta, per consentire l’ingresso in porto di alcuni cacciatorpediniere inglesi di ritorno da una missione.
Portatisi nella scia delle siluranti britanniche, i “maiali” penetravano nel porto di Alessandria e iniziavano l’avvicinamento finale verso gli obiettivi.
L’unità assegnata all’equipaggio Durand de la Penne-Bianchi era la nave da battaglia Valiant (foto), ormeggiata di prora alla gemella Queen Elizabeth, nello specchio acqueo prospiciente la banchina petroli.
Superata l’ultima ostruzione, poco dopo le 02.00 del 19 dicembre gli operatori immergevano il “maiale” per portarsi al di sotto dello scafo della Valiant, ma il mezzo subacqueo, urtata la carena, mentre gli operatori cercavano l’aletta di rollio della nave per fissarvi la carica esplosiva, si allagava perdendo quota, appoggiandosi così sul fondale fangoso a qualche metro di distanza dalla nave. Durand de la Penne riusciva a risalire in superficie, verificando di trovarsi al traverso delle torri prodiere dell’unità inglese. Ritornato in profondità Durand de la Penne cercava di far ripartire l’apparecchio senza riuscirvi. Chiedeva quindi a Bianchi di ispezionare le eliche per verificare eventuali impedimenti. Nel compiere quest’operazione il secondo uomo, a causa di un’avaria al suo autorespiratore, veniva colto da malessere e, mentre cercava di risalire in superficie, perdeva i sensi.
Durand de la Penne, rimasto solo, trascinava faticosamente, per quaranta lunghi minuti, l’apparecchio verso lo scafo della corazzata britannica. Attivate le spolette della carica esplosiva e coperto con il fango il cruscotto per evitare che la luminosità degli strumenti potesse indicarne la posizione in caso di eventuali ricerche, Durand de la Penne risaliva in superficie dove veniva individuato dal personale di guardia e, fatto segno da alcune scariche di mitragliatore, si rifugiava sulla boa d’ormeggio della corazzata dove ritrova il suo secondo.
Verso le 03.30 i due operatori, raggiunti da un motoscafo della vigilanza portuale, venivano fatti prigionieri e condotti a terra per un primo interrogatorio. Essendosi rifiutati di fornire informazioni sulla propria missione, Durand de la Penne e Bianchi venivano riportati a bordo e rinchiusi in una cala tra le due torri di grosso calibro prodiere. Pochi minuti prima dell’esplosione Durand de la Penne chiedeva di parlare con il comandante della Valiant, per informarlo che da li a breve la sua nave sarebbe saltata in aria e che se voleva poteva mettere in salvo l’equipaggio. Essendosi nuovamente rifiutato di rivelare la collocazione della carica esplosiva, fu ricondotto, ormai conscio dell’imminente fine e con la consapevolezza di aver adempiuto al proprio dovere fino all’estremo sacrificio, nella cala.
Alle 06.15 avveniva l’esplosione che danneggiava gravemente l’unità: i danni furono molto estesi e la Valiant dovette restare ai lavori a Durban, in Sud Africa, potendo rientrare nel Mediterraneo solo nel 1943 per lo sbarco in Sicilia. Dopo l’esplosione, Durand de la Penne riusciva ad abbandonare il locale ove era stato confinato e, raggiunta la poppa dell’unità, ebbe la soddisfazione di assistere all’esplosione che danneggiò in maniera altrettanto grave la Queen Elizabeth. Restò poi in prigionia sino all’armistizio.
Il “maiale” pilotato da Marceglia e Schergat, avvicinatosi alla nave da battaglia Queen Elizabeth s’immergeva, attorno alle 03.00, in prossimità del bersaglio. Giunti in immersione al di sotto dell’unità nemica, con rapidità e destrezza i due assaltatori sospendevano la carica esplosiva a un cavo d’acciaio tra le alette anti rollio della corazzata. Alle 03.25, con tempi “da manuale”, l’operazione era ultimata e i due uomini iniziavano la manovra di disimpegno. Alle 04.30, dopo aver provveduto ad attivare le cariche per l’autodistruzione del loro siluro a lenta corsa prendevano terra in suolo nemico. Alle 06.25 una sorda esplosione scuoteva l’unità britannica provocando una vasta falla che interessava tre dei locali caldaie.
Si conclude in questo modo un'impresa leggendaria nella storia della nostra Marina e in quella navale di tutti i tempi.