Quest’anno, ricordare la battaglia di Waterloo, ha un sapore completamente diverso. È l’anno del bicentenario della morte di Napoleone e, in effetti, celebrare il giorno in cui venne sconfitto militarmente e politicamente, assume un valore più profondo.
Quando Napoleone fuggì dall’isola d’Elba, sfuggendo in modo miracoloso alla sorveglianza della flotta inglese, rientrò in Francia pieno di buoni propositi, tuttavia l’unica cosa che assillava la sua mente era un desiderio profondo di pace. Colui che per anni aveva messo a ferro e fuoco l’intera Europa, adesso chiedeva a tutta Europa di perdonarlo, di abbassare le armi ed accettare il suo governo in una Francia che, secondo le sue promesse, sarebbe rimasta entro i suoi confini.
Dopo la battaglia di Lipsia e la straordinaria campagna di Francia del 1814, Napoleone abdicò, rimettendo il suo potere nelle mani degli alleati i quali riportarono sul trono di Francia il fratello minore di Luigi XVI. I Borboni tornavano, dunque, al potere pronti a trasformare di nuovo i cittadini in sudditi, ma soprattutto decisi a cancellare per sempre la memoria di chi li aveva estromessi dal loro potere legittimo, un potere che non veniva dagli uomini, ma direttamente da Dio.
Napoleone, al tempo stesso figlio e carnefice della rivoluzione, fu confinato in un regno in miniatura il quale, per quanto ridicolo fosse, mise comunque in luce l’irruenza creativa dell’imperatore. Piccolo o grande che fosse il suo dominio, Napoleone sapeva come trare il meglio dai suoi uomini, sapeva sfruttare tutto ciò che lo circondava, e aveva in mente solo la sua grandeur e la sua irrefrenabile passione per tutto ciò che era bello.
Negli anni in cui Napoleone fu all’Elba, tutto cambiò in meglio e l’isola beneficiò, anche se per poco, della presenza di un grande soldato e di un assennato imprenditore. L’Elba però era troppo stretta per uno come Napoleone in più, il còrso, sentiva che la Francia aveva ancora bisogno di lui.
Luigi XVIII, sovrano stanco, lento e avveduto, capì immediatamente che non poteva imporsi ai francesi come un sovrano d’Ancien Régime e che la Francia avrebbe sopportato solo una forma di governo più morbida rispetto quella adottata dai suoi predecessori; egli si rassegnò all’idea di una monarchia costituzionale che limitasse i suoi poteri.
Fleury de Chaboulon, ex segretario di Napoleone e membro del Consiglio di Stato, nelle sue memorie sul quel periodo osservò come il re fosse stato particolarmente accorto a lasciare invariate certe prerogative dell’amministrazione napoleonica, ma soprattutto avesse garantito il mantenimento dei gradi e le ricompense d’onore ai militari che avevano combattuto nella Grand Armée. Proprio quest’ultimi furono certamente i più delusi e affranti dall’esilio del loro condottiero, mentre altri di grado più elevato, seppero rimontare in sella e qualcuno – il maresciallo Michel Ney – promise al re Borbone di riportare a Parigi Bonaparte “chiuso in una gabbia di ferro”.
Il 1° marzo 1815, l’Aquila – come fu chiamato nella corrispondenza Napoleone – sbarcò nel golfo di San Juan in Provenza: il volo proseguì poi fino a Parigi. Durante il tragitto i soldati vennero incontro al loro imperatore come dei figli in attesa di un padre che era rimasto per troppo tempo lontano da casa. Alla sola vista del celebre copricapo, della sua piccola figura avvolta nella celebre redingote grigia, qualunque reggimento francese fu annientato dall’amore e dai ricordi dell’unico generale e capo da loro riconosciuto come tale.
Il passaggio di Napoleone per i paesi fu un susseguirsi di trionfi, fino a quando entro a Parigi dalla porta principale, mentre dal retro il re fuggiva per mettersi al sicuro.
A Napoleone non restava che formare un nuovo governo e chiedere la pace ai sovrani che fino a quel momento lo avevano osteggiato. Tra le priorità vi fu anche quella di riabbracciare il suo amato figlio, stretto nelle grinfie austriache di Metternich.
Il direttivo fu formato: il principe Cambacérès fu nominato ministro della giustizia, il maresciallo Davout ricevette il ministero della guerra, il duca di Vicenza, Caulaincourt, prese il timone degli affari esteri, Il duca d’Otranto Savary prese la direzione della polizia, insomma tutti i fedelissimi ricevettero un incarico di prestigio nella guida del paese.
L’esercito era però a pezzi: molti soldati avevano smesso la coccarda tricolore, sostituendola con quella bianca dei Borboni. Napoleone fece riunire i battaglioni nel cortile delle Tuileries e, ricorda sempre Fleury de Chaboulon: "tutta la capitale fu testimone del sentimento e dell’entusiasmo e attaccamento che animavano questo soldati coraggiosi; sembrava che essi avessero riconquistato la loro patria e ritrovato nei colori nazionali, i ricordi di tutti i sentimenti generosi che hanno sempre distinto la nazione francese".
Nel breve lasso di tempo in cui Luigi XVIII fu al potere, confermò alcune cariche all’interno del ministero della guerra, tuttavia ne ridusse drasticamente gli uffici e gli impiegati amministrativi. I reggimenti di fanteria, per effetto di un’ordinanza reale del 12 maggio 1814, furono ridotti da 156 a 90 per la linea e da 37 a 15 per la leggera1. Gli stessi tagli toccarono anche la cavalleria che da 110 reggimenti passò a 56, e l’artiglieria fu ristretta da 485 uomini ad appena 200 unità. La stesso decreto stabilì anche il destino della gloriosa Guardia Imperiale. All’articolo uno fu deciso di incorporare i pretoriani di Napoleone in due corpi distinti di tre battaglioni ciascuno: il corpo reale dei granatieri e il corpo reale dei cacciatori di Francia. La cavalleria invece restò su quattro reggimenti i quali però omisero il titolo di “imperiali” adottando quello di “corpo reale”.
Napoleone doveva dunque risollevare dalla cenere quel che rimaneva dell’esercito più potente d’Europa, ma non era un’impresa facile. Le reclute a sua disposizione non erano più molte; i soldati poi non la pensavano tutti allo stesso modo sul ritorno dell’imperatore e in molti aborrivano al pensiero di trovarsi di nuovo in battaglia. Ma allora ci sarebbe stata una nuova guerra?
Malgrado la volontà di Napoleone fosse quella di scendere a patti con i vincitori del 1814, la verità era un’altra poiché si aspettava che, da un momento all’altro, gli inglesi e i prussiani rimasti in Belgio lo avrebbero attaccato. Napoleone, inoltre, sapeva della presenza a Gand di Luigi XVIII e della simpatia riscossa dal Borbone in quelle province. Era dunque naturale che l’Armata del Nord sarebbe stata l’esercito principale che avrebbe neutralizzato un presunto attacco alleato e non a caso Napoleone in persona se ne riservò il comando.
Il giorno dopo la battaglia
L’epico scontro tra Wellington e Napoleone nella piana di Waterloo è stato ampiamente trattato dalla storiografia militare. Ogni particolare della battaglia è stato analizzato, valutando tutte le possibili variabili e mettendo sotto severo giudizio il famoso Grouchy, presto diventato il capro espiatorio della sconfitta imperiale.
Napoleone fu battuto nella piana di Waterloo a causa di una serie di circostanze avverse, ma soprattutto pesò il fatto che lui, forse, non era più lo stesso comandante di qualche anno prima. Chi gli fu accanto in quel giorno raccontò di un uomo la cui forza interiore era la stessa del ventisettenne che comandò l’Armata d’Italia nel 1797, ciò nondimeno il corpo era quello di un uomo stanco, avvilito da una serie di problemi di salute che gli impedivano di far brillare il suo genio in mezzo al campo di battaglia. Oltre a questo a mancare erano anche i suoi vecchi fedele compagni, quelli di cui si fidava: più di una volta Napoleone invocò la presenza dell’amico Berthier, o del maresciallo Lannes.
Gli errori commessi da Ney, con la sua spregiudicata carica di cavalleria, si sarebbero potuti evitare se solo al comando ci fosse stato un uomo come Murat. Wellington si comportò come un esperto cacciatore, attendendo che la sua preda facesse qualche errore, e così fu.
L’armata prussiana di Blücher piombò sul fianco dei francesi seguendo la stessa tattica in cui Napoleone era maestro, eppure la comparsa delle uniformi blu scuro dei tedeschi e l’ultimo leggendario quadrato della Guardia di Cambronne segnarono la fine di quella singola giornata, non però della guerra.
Le 24 ore successive a Waterloo sono state spesso trascurate dalla storiografia, ma grazie al mirabile lavoro di Paul L. Dawson “Battle for Paris 1815” siano in grado di ricostruire quanto accadde immediatamente dopo la sconfitta dell’imperatore.
Il 19 giugno 1815 i reduci dell’Armata del Nord erano abbandonati a sé stessi: Napoleone, non appena le circostanze apparirono irreparabili, preferì allontanarsi verso Genappe e poi Parigi per riorganizzare una seconda campagna che sarebbe dovuta partire nel mese di luglio.
Il ripiegamento dell’Armata del Nord allarmò la 16a divisione militare il cui comandante ordinò la mobilitazione persino della Guardia Nazionale.
Il maresciallo Grouchy, all’oscuro di quanto fosse successo a Waterloo, continuò a premere sulle truppe prussiane, ottenendo anche qualche risultato. Quando le notizie della disfatta di Napoleone arrivarono, il maresciallo poteva scegliere di ritirarsi subito verso Parigi, tuttavia sarebbe stata una decisione alquanto avventata poiché avrebbe trovato la strada che collegava Charleroi alla capitale completamente bloccata. Grouchy allora, per non finire nell’imbuto, decise di ripiegare su Namur.
Il generale Exelmans fu mandato verso la città con l’ordine di preservare i ponti ancora intatti sulla Sambre: per coprire 48 chilometri impiegò più di cinque ore a causa della pessime condizioni delle strade, ancora impraticabili dal fango.
Lo stesso giorno, Grouchy venne a conoscenza della sconfitta di Waterloo: il 18 e il 19 giugno le sue divisioni avevano tenuto a bada i prussiani a Wavre, ma la vittoria era stata quanto mai inutile.
Il 20 giungo il maresciallo Soult scrisse a Napoleone informandolo che era arrivato a Rocroy illustrandogli le misere condizioni dell’esercito: "Molti soldati sono senza armi, un gran numero di cavalieri sono senza cavalli. Mi sono anche reso conto che un gran numero di cavalli per il treno d’artiglieria sono andati perduti"2.
Un altro rapporto di un generale francese, Emmanuel Fouler Conte di Relinque, raccontò: "Ogni forma di disciplina tra soldati e ufficiali è andata persa, così come tra gli ufficiali e i generali. I colpi di bastone sono proibiti nell’esercito, così non esiste modo per punire i soldati. Si fa un gran parlare di onore e sentimento, ma essi sono puramente immaginari e così rari che nessuna legge dovrebbe fare affidamento su di essi. Il saccheggio è diventato d’uso generale tanto che i soldati lo credono un loro diritto […]"3.
Il 21 giugno, il duca di Wellington iniziò la marcia di avvicinamento verso Parigi.
Il maresciallo Soult era seriamente preoccupato: "I soldati scompaiono in tutte le direzioni. Mi è stato riportato che una colonna di questi fuggitivi si stava dirigendo verso Mezieres, ma io gli ho intercettati e ho ordinato loro di dirigersi verso Laon. Dopo aver lasciato Rocroy, verso Laon, ho incontrato diversi fuggiaschi e mi aspettavo di trovarne molti altri in questo posto. Il generale Langeron mi ha detto però che c’è molta frustrazione e che molti sono spariti"4.
Le condizioni della cavalleria non erano migliori, anzi alcuni reparti mancavano all’appello e avevano preso strade differenti senza seguire alcun coordinamento.
In tali condizioni, il disegno di Napoleone di riunire una nuova armata unendola al resto dell’Armata del Nord, a quella di Grouchy e alla Guardia Nazionale si dimostrò subito irrealizzabile: non restava che rimettersi al proprio destino. Napoleone abdicò per seconda volta, ma questa sarebbe stata l’ultima.
L’isola di Sant’Elena
Il 23 e 24 giugno 1815 iniziarono le giornate più lunghe per l’imperatore. In quei due giorni gli fu presentato il nuovo governo provvisorio che avrebbe preso il potere dopo la sua abdicazione. La gente si assiepava intorno all’Eliseo: incuriosita, morbosa e desiderosa di vedere per l’ultima volta quel piccolo uomo che aveva trasformato a suo piacere la geografia d’Europa.
Il giorno dopo, il generale Bonaparte – così lo chiamarono sempre gli inglesi, poiché non ne riconobbero mai la dignità imperiale – avrebbe lasciato il palazzo di potere verso un destino a lui ancora ignoto. Egli si preparava di nuovo per un lungo viaggio, sapeva che questa volta gli inglesi non sarebbero stati così sprovveduti da tenerlo vicino.
Napoleone sperava in un esilio più dignitoso: l’America, per esempio, avrebbe fatto al caso suo. Il governo britannico però, scelse l’isola più sperduta del suo vastissimo impero: Sant’Elena. Quella piccola isoletta, punto di approdo sicuro in mezzo all’oceano Pacifico, era stata di proprietà della Compagnia delle Indie Orientali e si apprestava a diventare la gabbia per l’uomo più temuto d’Europa.
Quando l’imperatore arrivò a Rochefort – pronto per l’imbarco – si era già disfatto degli abiti militari: "Sembrava che l’Imperatore, in mezzo all’agitazione degli uomini e delle cose, dimostrasse calma, impassibilità e si mostrasse del tutto indifferente a ciò che succedeva"5.
La giornata del 15 luglio smosse l’animo dell’imperatore poiché era arrivato il momento di salire su una nave e prendere la rotta verso la nuova destinazione. Napoleone, una volta salito a bordo del Bellerophon si rivolse al comandante e dopo averlo salutato disse: "Salgo a bordo mettendomi sotto la protezione della legge inglese". Una legge che si dimostrò carica di odio e voglia di vendetta, che diventò sempre più dura e oppressiva nei suoi confronti.
Il 16 luglio 1815, Napoleone incontrò l’ammiraglio inglese Hotham e fu in quell’occasione che, dopo tanto tempo, indossò nuovamente gli abiti militari prendendo il comando di un piccolo drappello britannico incaricato di rendere onore all’illustre ospite.
Era inutile nasconderlo: ogni sforzo per annichilire l’immagine di quell’uomo di fronte al mondo era un’inutile perdita di tempo. Non appena il Bellerophon attraccò a Plymouth una folla si assiepò sulla banchina, mentre migliaia di barche tentarono di raggiungerlo via mare. Napoleone fece così la sua apparizione in pubblico: un mormorio salì dalla folla incuriosita e ammirata.
Domenica 30 luglio 1815, L’ammiraglio lord Keith comunicò a Napoleone la sua prossima destinazione: "L’isola di Sant’Elena è stata scelta per la sua futura residenza: il suo clima è sano, e la situazione locale permetterà che la si tratti con maggiore indulgenza come non potremmo fare altrove, viste le precauzioni indispensabili che saremo obbligati a prendere per assicurare la sua persona. Si permette al generale Bonaparte di scegliere, tra le persone che lo hanno accompagnato in Inghilterra, con l’eccezione dei generali Savary e Lallemand, tre ufficiali i quali, con il suo chirurgo, avranno il permesso di accompagnarla a Sant’Elena e non potranno più lasciare l’isola senza il permesso del governo britannico"6.
Bertrand, Montholon, Gourgaud, erano dunque prigionieri allo stesso modo di Napoleone, forse più prigionieri dell’affetto che provavano per quell’uomo o più semplicemente “interessati” alla sua eredità, a quello che avrebbe lasciato dopo di lui.
L’ultimo imbarco fu sul vascello Northumberland dove Napoleone non abbandonò mai la sua verve, mostrando quasi entusiasmo e curiosità su qualsiasi dettaglio del viaggio: "L’imperatore, nella mattina, chiamava qualcuno di noi a turno per conoscere il giornale del vascello, le leghe fatte, lo stato del vento, le novità, ecc. ecc… Leggeva molto, si vestiva verso le quattro e passava nella sala comune dove giocava a scacchi con ciascuno di noi. Tutti sapevano che l’Imperatore non era abituato a stare a cena più di un quarto d’ora; qui i due servizi duravano dall’ora all’ora e mezza, per lui era una delle cose più penose, sebbene non lo lasciasse intendere: la sua figura, i suoi gesti e tutta la sua persona era costantemente impassibile"7.
Il 16 ottobre 1815, dopo diversi mesi di navigazione nei quali Napoleone ebbe tutto il tempo di riflettere sul suo passato e su quale sarebbe stato il suo futuro, sbarcò sull’isola di Sant’Elena.
Il primo periodo trascorso come illustre prigioniero di Sua Maestà britannica non fu del tutto negativo: Napoleone passò lunghe e piacevoli giornate nella tenuta di Briars, appartenete a William Balcombe. Egli ebbe occasione di intrattenersi con altre persone, di scambiare quattro chiacchere con gli abitanti, ma soprattutto per intrattenere un bel rapporto con la giovane fanciulla Betsy Balcombe.
Furono giorni felici nei quali il concetto di prigionia sembrava ancora molto lontano. Il vero carcere iniziò quando l’imperatore, insieme ai suoi fidati, furono spostati verso Longwood, un angolo angusto dell’isola, costantemente battuto dal vento e con un clima umido e malsano. Non tutti andarono a vivere con Napoleone: il fidato Bertrand, ad esempio, prese casa per lui e la sua famiglia nei dintorni, lo stesso fece Montholon.
A Longwood l’abitazione era stata oggetto di lavori recenti che ne avevano abbellito – per quanto possibile – l’aspetto. Al suo interno Napoleone predispose tutto quanto il necessario per trascorrere il suo tempo immerso nella lettura, ma anche nell’ozio più assoluto.
Egli, in quei giorni, divenne storico di sé stesso: come un fiume in piena riversò su Las Cases, una quantità di pensieri, informazioni e storie che servirono a costruire un mito che andò ben oltre la sua misera morte.
Allo stesso modo, l’imperatore volle che a casa sua fosse rispettata la stessa etichetta delle Tuileries: una piccola corte di esiliati, aggrappata ai ricordi e al fasto di un tempo che non sarebbe più tornato.
Il carceriere di Napoleone, Sir Hudson Lowe, era l’unico che avrebbe potuto occupare quel posto e quello sgradevole compito: uomo dal carattere freddo, arcigno, che aprì con l’imperatore un duello fatto di dispetti, angherie e privazioni.
Sono state molte le voci sulle cause della morte di Napoleone: alcuni sostennero che fosse morto di cancro allo stomaco, altri a causa di un lento avvelenamento voluto da Charles Montholon livido di rabbia e gelosia per la liaison che Napoleone aveva con la moglie Albine. La verità era che al di là di una malattia o dell’arsenico, Napoleone si spense lentamente per una vita che non era più la sua, incatenato ai ricordi di un passato glorioso.
Egli, come pochi altri nella storia, fu la testimonianza che non sempre la storia viene scritta dai vincitori; egli fu un vinto, eppure il suo pensiero e la testimonianza di chi condivise con lui i suoi ultimi giorni, costruirono un mito inossidabile che sopravvive ancora oggi.
1 H. Couderc de Saint-Chamant, Napoléon ses dernières armées, Paris: Flammarion, s.d., p. 74.
2 P.L. Dawson, Battle for Paris. The untold story of the fighting after Waterloo, Barnsley: Frontline books, 2019, p. 91.
3 Ivi, p. 92.
4 Ivi, p. 94.
5 E. Las Cases, Mémorial de Sainte-Helene, Paris: Bossange, 1823 – 1824, vol. 1, p. 46.
6 Ivi, p. 83.
7 Ivi, p. 134.
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