Nel 1797, la Francia del Direttorio aveva finalmente trovato il suo eroe: il generale Bonaparte. Nominato comandante dell’Armata d’Italia a soli 27 anni, il giovane ufficiale era riuscito a sottomettere buona parte del nord della Penisola, sconfiggendo l’esercito, che sulla carta, era considerato tra i migliori d’Europa. Le armate imperiali, una volta padrone assolute del territorio italiano, furono schiacciate fino in Friuli ove fu firmato il trattato di Campoformido. Da quell’istante, l’Italia diventò così un’immensa cassaforte dalla quale la Francia iniziò a prelevare denaro e opere d’arte. Bonaparte rientrò in patria con il capo cinto di alloro e il suo nome riecheggiava in tutte le piazze di Parigi: era forse lui l’uomo forte di cui la Francia aveva bisogno per uscire fuori dagli anni bui della rivoluzione?
Il successo popolare e l’assidua presenza nei salotti cittadini più modaioli, iniziarono a preoccupare i membri del governo i quali, inetti e appisolati nella loro inedia, pensarono che Bonaparte stava diventando troppo pericoloso. Se avesse continuato a vincere, la sua influenza sui parigini sarebbe diventata incontrollabile; e poi, quella sua dama di compagnia, Giuseppina, era una donna troppo invischiata nella politica con amicizie influenti e avrebbe fatto sicuramente qualcosa per agevolare la scalata del suo compagno. Attaccare direttamente il giovane comandante avrebbe arrecato più danno che beneficio, serviva dunque trovare un escamotage che tenesse lontano il generale còrso dalla capitale, magari affidandogli un nuovo incarico in qualche territorio lontano.
Tra tutte le scelte a disposizione del Direttorio, una sembrava fatta proprio per Bonaparte; era da tempo che la Francia voleva contrastare il potere marittimo dell’acerrima nemica Inghilterra e non potendo competere sugli oceani, decise di sferrare un colpo mortale attaccando l’Egitto.
Religione e civilizzazione
La spedizione in Egitto fu un’operazione militare diversa dalle altre e questa peculiarità fu dovuta proprio all’organizzazione voluta da Bonaparte. L’Egitto, allora come oggi, ispirava un senso di mistero tra tutti gli occidentali: le mummie, le piramidi, gli dei con la testa di animale, i riti e il loro sapere scientifico, ispirarono molti tra gli accademici del tempo, ma non solo. Lo stile egiziano nella moda, ad esempio, vide la sua apparizione ben prima dell’epoca imperiale e già, nel 1798, molti oggetti avevano una foggia che ricordava l’antica civiltà dei faraoni.
Bonaparte era indubbiamente un uomo di cultura, avido lettore e appassionato di storia: cresciuto nella casa di Ajaccio, la sua stanza preferita era la biblioteca del padre Carlo. Giuseppe, fratello maggiore, rammentò nelle sue memorie quanto Napoleone amasse trascorrere il tempo immerso nei libri, leggendo in particolare storia antica, scienze e matematica. La passione per lo studio e una certa curiosità verso le altre culture, tracciò una linea di continuità nella carriera di Bonaparte il quale, prima di ogni campagna militare, ordinava al suo bibliotecario di selezionare una serie di titoli per quella che diventò una vera e propria “biblioteca portatile”.
Prima di salpare per le coste egiziane, il bibliotecario di fiducia, al tempo Louis Madleine Ripault, riunì una biblioteca ad hoc, inserendo svariati titoli di storia, ma soprattutto libri riguardanti la civiltà e l’organizzazione politica dell’Egitto. Nella scelta, Ripault non dimenticò di inserire il Corano, sapendo che sarebbe stato uno strumento utile per confrontarsi con le autorità religiose del paese.
In Egitto non ci andarono soltanto i soldati. Bonaparte, infatti, volle che al seguito dell’esercito fossero aggregati eruditi, scienziati e tecnici che, con il loro lavoro, avrebbero contribuito alla costruzione del nuovo Egitto. Tra questi invitati d’eccezione, ricordiamo il celebre Vivant Denon, futuro direttore dell’Istituto d’Egitto e poi del Musée Napoleon (l’odierno Louvre), e Gaspard Monge. Il piano generale prevedeva dunque una conquista su vari livelli, dove il fattore “culturale” assumeva un’importanza rilevante, ma non secondaria ai programmi militari.
Le incognite che Bonaparte doveva affrontare erano davvero molte, soprattutto nell’ottica di un possibile duello con la Royal Navy il cui dominio incontrastato nel Mediterraneo lasciava presagire cattive sorprese. Bonaparte sapeva che le battaglie principali si sarebbero combattute sulla terra, ma senza la copertura di una flotta, tutto sarebbe stato inutile e finanche pericoloso.
Al di là degli aspetti militari, quello che a noi interessa maggiormente è l’approccio che Bonaparte ebbe verso la religione mussulmana, una cultura radicalmente diversa da quella incontrata fino a quel momento in altri paesi dove aveva combattuto.
È bene ricordare come Napoleone Bonaparte non fosse propriamente un uomo religioso e la sua blanda concezione del cattolicesimo lo allontanava dall’idea di diventare il condottiero di una nuova crociata contro gli arabi. Al contrario, il comandante francese dimostrò immediatamente un notevole interesse per diversi aspetti del credo mussulmano.
Il 28 giugno 1798, il generale Bonaparte si presentò alle truppe, lanciando un proclama nel quale si parlava di politica e di quanto fosse importante colpire l’Egitto per compromettere gli interessi della corona britannica in nord Africa. Una parte del discorso riguardava la cultura e la religione del paese che avrebbe “ospitato” le mezze brigate repubblicane:
Il popolo con il quale dovremo convivere è mussulmano. Il loro credo principale è: “Non c’è dio al di fuori di Allah e Maometto è il suo profeta”. Non contradditeli, comportatevi con essi come nel passato vi siete comportati con gli ebrei e gli italiani. Rispettate i loro mufti e imam come avete avuto rispetto dei rabbini e dei vescovi. Mostrate la stessa tolleranza verso le cerimonie prescritte dal Corano e verso le moschee come avete fatto coi conventi e le sinagoghe, verso la religione di Mosé e di Gesù Cristo. Le legioni romane solevano proteggere tutte le religioni. Voi troverete qui delle usanze e dei costumi molto differenti da quelli di Europa; dovrete abituarvi a loro. I popoli dei paesi dove siamo andando trattano le donne in modo differente dal modo in cui lo facciamo noi: ma in ogni paese l’uomo che stupra una donna è un mostro. Il saccheggio non arricchisce. Esso ci disonora, esso distrugge le nostre risorse e trasforma il popolo in un nostro nemico.
I propositi sopra descritti furono ammirevoli, tuttavia celavano delle falsità, soprattutto quando Bonaparte parlò del rispetto verso le chiese e la condanna dei saccheggi. In Italia, l’opposizione del clero alle idee rivoluzionarie, generarono una terribile guerra civile: i francesi osteggiarono sempre la Chiesa cattolica con ogni mezzo.
Comunque, al di là delle trovate propagandistiche, il comandate francese aveva capito – almeno nelle intenzioni – che per dominare un popolo così diverso da quello francese, occorreva adattarsi ad esso, comprenderlo, senza turbarne gli usi e le consuetudini religiose. La Francia era intervenuta in Egitto per ragioni essenzialmente economiche, Bonaparte però si propose come liberatore, recitando la stessa parte che aveva proposto in Italia dove gli oppressori erano in nobili e i vescovi, mentre in Egitto erano i bey (la nobiltà dell’impero Ottomano).
Il 2 luglio 1798, il comandante in capo dell’armata d’Egitto si rivolse nuovamente al popolo di Alessandria, spiegando il perché la nazione Francese si fosse avventurata fino li: “Da molto tempo i bey che governano l’Egitto insultano la nazione francese, mettendo molte avversità a loro commercianti: è arrivata l’ora del castigo. Da troppo tempo questa banda di schiavi presi dalla Georgia e dal Caucaso tiranneggia la parte più bella del mondo; ma dio, dal quale tutto dipende, ha ordinato che il loro impero finisca. Popolo d’Egitto, vi diranno che siamo venuti per distruggere la vostra religione; non credetegli! Rispondete che io sono venuto a restituirvi i vostri diritti, punire gli usurpatori e che io rispetto, più che i Mamelucchi, Dio, il suo profeta e il Corano”.
Bonaparte lavorò davvero con grande esperienza, cercando di arrivare al cuore dei mussulmani, offrendo un’immagine di sé simile ad un fedele che stava effettivamente combattendo per loro: “Non siamo noi che abbiamo sconfitto il Papa, che faceva fare la guerra ai Mussulmani? Non siamo noi che abbiamo distrutto i cavalieri di Malta perché questi sciocchi credevano che Dio volesse la guerra contro i Mussulmani?”. Le parole di Bonaparte, la professione di fede e amicizia verso i mussulmani presentavano, come sempre, una doppia faccia; egli era amico di Allah, ma nel contempo esigeva obbedienza e fedeltà al governo francese.
Dopo questa seducente introduzione, egli comunicò quali fossero le regole per la gestione delle comunità: “Art. 1 - Tutti i villaggi nel raggio di tre leghe laddove passerà l’esercito invieranno una deputazione per far conoscere al generale comandante le truppe che sono ubbidienti, e avvisarle che isseranno la bandiera dell’esercito, blu, bianca e rossa. Art. 2 - Tutti i villaggi che prenderanno le armi contro l’armata saranno bruciati. Art. 3 - Tutti i villaggi che si saranno sottomessi all’armata metteranno, insieme allo stendardo del Gran Signore (Mufti n.d.a.), nostro amico, quello dell’armata. Art. 4 - Gli sceicchi faranno mettere i sigilli sui beni, case e proprietà che appartengono ai Mamelucchi e avranno curo che nulla venga rubato. Art. 5 – Gli sceicchi, i cadì, e gli imam continueranno le loro funzioni nei rispettivi posti. Ciascun abitante resterà da loro, e le preghiere continueranno come all’ordinario. Ciascuno ringrazierà Dio della distruzione del Mamelucchi e griderà: gloria al Sultano! Gloria all’armata francese, sua amica! Maledizione ai Mamelucchi e fortuna ai popoli d’Egitto!”.
Come accade oggi nei confronti dell’Islam o di qualsiasi nazione che venga considerata al di fuori delle logiche democratiche (i secoli trascorrono, ma molte cose restano invariate), anche Bonaparte tentò di spingere l’Egitto verso un fantomatico processo di ammodernamento che avrà, nell’Istituto d’Egitto, la sua punta di diamante. Il 23 agosto 1798, al Cairo, si tenne la prima riunione dell’Institut d’Egypte dove gli uomini di scienza, già sbarcati ad Alessandria, si confrontarono su tutte le questioni relative alla storia egiziana, alle leggi, usi e consuetudini di quella regione. Bonaparte fungeva da contatto, essendo lui in prima linea: egli abbinava le caratteristiche di uno scaltro diplomatico alla fermezza e freddezza di un consumato consigliere militare.
La religione e il processo di civilizzazione dovevano, dunque, camminare pari passo, senza che l’una arrecasse danno all’altra. A questo proposito, il 25 agosto 1798, Bonaparte scrisse allo Sharif della Mecca garantendogli che i viaggi dei pellegrini mussulmani verso il luogo santo sarebbero continuati come sempre offrendogli, inoltre, la protezione delle truppe francesi o delle unità di cavalleria indigena. Bonaparte comunicò al Direttorio che intrattenere buoni rapporti con lo Sharif della Mecca era funzionale al mantenimento della pace nel paese, ma soprattutto facilitava le esigenze commerciali prefissate nel piano originale d’invasione.
Nel dialogo tra Bonaparte e le autorità mussulmane egiziane emersero alcune note interessanti sulla religiosità del generale francese il quale, nella sua vita, considerò la religione come un aspetto secondario, forse anche come un ostacolo o una catena superstiziosa dalla quale l’uomo libero doveva slegarsi. Egli, inoltre, era fortemente anti trinitario, rifiutando il dogma cristiano del Padre, Figlio e Spirito Santo: “in questa flotta russa c’è chi è convinto che Dio non sia uno solo bensì che ve ne siano tre. Essi non tarderanno a capire che non è il numero di dei che fanno la forza, e che c’è un solo padre della vittoria, clemente e misericordioso, combattente sempre per i buoni, che confonde i progetti dei malvagi e che, nella sua saggezza, ha deciso che io venissi in Egitto per cambiarne il volto e sostituire un regime devastatore in un regime di ordine e giustizia”. In tal senso Bonaparte si sentiva più vicino alla religione del Corano ripetendo, con sistematica ossessione, che il suo potere e le sue volontà derivavano sempre da un volere più supremo.
L’Insitute d’Egypte
L’abilità di Bonaparte nel trattare con i religiosi fu indispensabile per la realizzazione dell’altro grande obiettivo previsto dalla missione: il progresso socio culturale del popolo egiziano. Appena arrivati in Egitto, gli scienziati e i pesatori destinati a questo nobile compito, furono subito d’impaccio al lavoro dei militari; il generale Kléber, persona che non andava molto per il sottile, impiegò immediatamente geografi, cartografi e ingegneri in attività più concrete, come la costruzione di baracche o il disbrigo di pratiche amministrative. Tra gli uomini di scienza, la frustrazione fu tale che molti chiesero il rimpatrio anche perché, poco avvezzi alla vita militare, non vedevano l’ora di tornare alle comodità parigine. Eppure Bonaparte, nella sua proverbiale caparbietà, insistette sul fatto che l’Egitto dovesse avere un’opportunità per modernizzarsi; tanto più che gli stessi dotti al seguito della sua armata constatarono in prima persona, le pessime condizioni in cui vivevano i locali.
Il primo tassello di questa operazione civilizzatrice fu l’introduzione della stampa: prima dell’arrivo dei francesi, l’Egitto non aveva alcuna pubblicazione al suo attivo. Gli stampatori portarono nelle loro cassette tipografiche tre tipi di caratteri: il francese, l’arabo e il greco; guarda caso la prima pubblicazione a comparire fu di carattere religioso Esercizi in letteratura arabica, estratti dal Corano per l’uso di coloro che studiano questa lingua. Ma il vero passo in avanti fu la stampa dei primi quotidiani ad opera dello stampatore Marc Aurel; gli egiziani che sapevano leggere, iniziarono ad essere informati su quanto accadeva in città sfogliando il Corriere d’Egitto, mentre chi prediligeva la letteratura e l’arte poteva intrattenersi con la Decade Egiziana.
Per il resto, la spedizione nella terra dei Faraoni, regalò all’Europa risultati scientifici rilevanti: tra tutti, ricordiamo il ritrovamento da parte dell’ufficiale del genio Pierre-François-Xavier Bouchard della famosa “stele di Rosetta” poi studiata e tradotta da Champollion. Gli altri membri dell’istituto apportarono novità in campo della botanica, nella geologia e nella zoologia. Grazie a loro e al grande lavoro di Vivant Denon, fu pubblicato uno dei capolavori dell’egittologia, la Description de l’Egypte (dieci volumi di testo e 14 di tavole formato in gran folio pubblicate tra il 1809 e il 1828) ancora oggi un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia dedicarsi a quel tipo di studi.
In totale, l’istituto fu suddiviso in quattro sezioni applicate (matematica, fisica, economia politica, arte e letteratura) presiedute da un consiglio del quale facevano parte i generali Bonaparte, Caffarelli e Andréossy insieme ai cittadini Monge, Bertholet, Geoffroy Saint-Hilaire, Costaz e Desgenettes. Ovviamente, all’interno di ogni sezione, esercitavano altri intellettuali e uomini di lettere, tra cui anche Déodat de Dolomieu (colui che diede il nome alle Dolomiti) e il medico della Grand Armée, Dominique Larrey.
Bonaparte confinò i “dotti” nella periferia di Nasriya, in un complesso di abitazioni attarono al palazzo di Qassim Bey, descritto dagli occupanti come un posto paradisiaco, in stile turco, ricco di fontane e colonnati all’aria aperta. Geoffrey Saint-Hilaire confessò addirittura che la bellezza e la suntuosità delle aule era preferibile a quella del Louvre di Parigi. All’interno del complesso furono montate delle serre per la conservazione delle piante, furono approntati degli spazi per gli zoologi, un modesto museo di storia naturale, una biblioteca e una piccola collezione archeologica che, sebbene fosse molto povera, formò il nucleo dell’attuale museo del Cairo.
Queste operazioni “culturali” ebbero un effetto positivo anche su parte dei cittadini mussulmani. Gli unici cronisti egiziani che conservarono una memoria scritta della presenza francese nella loro patria furono due: lo sceicco Adb-el rahman el Djabarti e il siriano Nakoula. Il primo, nativo del Cairo, testimoniò la bellezza della residenza riservata agli scienziati francesi, lasciando anche un ricordo interessante sulla biblioteca e i loro fruitori: “I francesi sistemarono in quest’ultima casa una grande biblioteca con molti bibliotecari che guardavano i libri e li consegnavano ai lettori che ne avevano bisogno. Questa biblioteca era aperta tutti i giorni a partire dalle due dopo mezzogiorno. I lettori si riunivano in una grande sala vicina a quella dove si trovavano i libri; si sedevano su delle sedie allineate attorno ad un grande tavolo. I soldati semplici, loro stessi, lavoravano in questa biblioteca. Se un mussulmano voleva entrare per visitare il palazzo veniva ricevuto con grande gentilezza. I francesi gioivano soprattutto quando i visitatori mussulmani sembravano interessarsi alle scienze; essi intrattenevano immediatamente delle relazioni con lui e gli mostravano dei libri stampati, con delle figure rappresentanti certe parti del globo terrestre, degli animali, delle piante […]”.
Il nostro narratore, fu lui stesso un assiduo frequentatore della biblioteca e tra i diversi libri da lui consultati, uno in particolare attrasse la sua attenzione: “Io ho visto, tra le altre cose, un grande volume di storia sul nostro Profeta (che Dio lo benedica). Il suo sacro ritratto è rappresentato così bene […]. Egli è in piedi, guardando il cielo rispettosamente, e tiene nella mano destra una spada e nella mano sinistra un libro; attorno a lui ci sono i suoi compagni (che siano graditi a Dio) che tengono a loro volta delle spade. In un’altra pagina sono rappresentati i primi quattro califfi, in una terza l’ascensione del Profeta al cielo”. El Djabarti proseguì la descrizione di tutto il complesso scientifico, esprimendo ammirazione per gli uomini di cultura francesi i quali si erano dotati di molti dizionari in diverse le lingue e lavoravano giorno e notte per tradurre ciò che sembrava interessante.
Quel che occupava maggiormente il tempo degli studiosi era rispondere ai quesiti proposti dal loro direttore, il generale Bonaparte; egli, infatti, preda di una insaziabile curiosità, delegava all’istituto delle problematiche da risolvere e delle richieste ben precise su cosa si potesse fare per migliorare le condizioni di vita in Egitto.
Questa attività durò fino al 1801, anno in cui fu concesso alle truppe francesi di ritornare in patria in seguito agli accordi presi con il trattato di Amiens. Indubbiamente l’Egitto, se analizzato solo dal punto di vista militare, fu una severa sconfitta per la Francia rivoluzionaria, ma non rappresentò una battuta di arresto per la carriera di Bonaparte: in questo il Direttorio aveva miseramente fallito.
La fuga rocambolesca del generale in capo e l’approdo sulle coste francesi fu un piacevole ritorno anche perché, nel 1799, il governo di Parigi aveva altro di che preoccuparsi viste le notizie allarmanti che arrivavano dall’Italia. Ancora una volta sarebbe stato Bonaparte a risolvere la questione, ma prima il generale pensò bene di assicurarsi, una volta per tutte, il consenso popolare, ordendo con un colpo di stato dagli esiti incerti, ma inevitabile. Il futuro imperatore dei francesi aveva bisogno di agire liberamente, senza lasciarsi imbrigliare dalle macchinazioni di quei cialtroni del Direttorio i quali, per altro, erano invisi anche al popolo.
I soldati
Certamente quello di Bonaparte e dell’Istituto di Egitto fu un approccio più aperto verso la condizione degli arabi e le loro usanze; altri francesi, meno colti e impegnati politicamente, riferirono diversamente ai loro amici o alla loro famiglia. Gli arabi sembravano un popolo davvero strano, con abitudini inusuali per un qualsiasi europeo abituato a vivere in città. L’osservazione allora cambiava, come del resto i giudizi espressi dai soldati, ma anche dagli ufficiali superiori i quali, non sempre d’accordo con il loro comandante, nutrivano qualche perplessità circa gli arabi e le loro usanze.
Il 20 messidoro anno VI (8 luglio 1798) il generale Joubert scrisse a suo fratello: “Il 16 siamo scesi ad Alessandria con l’ammiraglio […]. Abbiamo visto nei bazar (mercati) dei montoni, piccioni e tabacco da fumare, ma soprattutto i barbieri i quali mettono la testa dei loro clienti tra le loro ginocchia e sembra piuttosto che vogliano tagliargliela che non fare la toilette. Hanno comunque la mano molto leggera. Io ho visto anche qualche donna, esse sono avvolte da lunghe vesti che nascondono le loro forme, e che lasciano scoperti solo gli occhi, all’incirca come l’abbigliamento portato dai penitenti nelle nostre province meridionali”. Nelle osservazioni di Joubert non mancò un richiamo al vero motivo per cui i soldati francesi erano giunti in quella terra misteriosa: “Arrivati al quartier generale, all’estremità della città, trovammo movimento e un’aria di vita che ci era sconosciuto da molto tempo, le truppe che sbarcavano, altre che si mettevano in marcia per attraversare il deserto verso Rosetta. I generali, i soldati, i Turchi, gli arabi, i cammelli, tutto questo formava un contrasto che dipingeva al naturale la rivoluzione che avrebbe cambiato la faccia di questo paese”.
L’Egitto del 1798 era certamente un paese inospitale, laddove le sabbie roventi del deserto avrebbero fiaccato la marcia di qualsiasi armata. Bonaparte incontrò le prime difficoltà proprio nel tragitto che da Alessandria conduceva fino al Cairo: molti soldati persero la vita, ma soprattutto iniziarono a rendersi conto che la guerra in mezzo alle dune era letteralmente un inferno dal quale fuggire il prima possibile. Tra le lettere francesi intercettate dalla flotta britannica, una, senza firma, indirizzata al generale Beurnoville racconta di questo ineluttabile disagio: “Siamo arrivati al Cairo dopo quattro giorni, mio caro generale; la nostra marcia è stata penosa, sotto un cielo infuocato, nella sabbia e nel deserto arido. Spesso senza acqua e senza pane: un attacco violento ha preso Alessandria, un combattimento violento, ma veloce ha deciso la presa del Cairo. […] Qui ci riposeremo, solo adesso noi potremmo distinguere gli effetti della fatica e l’influenza del clima, e decidere se noi potremmo vivere per lungo tempo qui!”.
I nemici dei francesi erano i mamelucchi, combattenti temibili e molto capaci. Il 10 termidoro anno VI (28 luglio 1798) l’aiutante generale Boyer inviò una missiva al generale Charles Edouard Jennings de Kilmaine, comandante la cavalleria dell’armata d’Inghilterra: “Essi sono tutti dei monti del Caucaso o della Georgia, tra loro ci sono diversi tedeschi, russi e anche qualche francese. La loro religione è maomettana. Sono addestrati sin da giovani all’arte militare, sono di una destrezza eccezionale a cavallo, a sparare con la carabina, le pistole e a sciabolare. […]. Ciascun mamelucco a due, tre o anche quattro domestici. Questi li seguono tutto il giorno a piedi, anche durante i combattimenti. Le armi di un mamelucco a cavallo consistono in due grandi fucili, che ciascuno dei domestici porta al suo fianco. Li scarica una volta sola; egli prende di seguito due paia di pistole che porta intorno al corpo, poi otto frecce che porta in una faretra […]. Alla fine la sua ultima risorsa sono due sciabole. Egli mette le briglie tra i denti, armato di una sciabola in ciascuna mano; si getta sul nemico, e taglia a destra e a sinistra, sfortunato è chi non para i suoi colpi”. L’arditezza di questi cavalieri fu tuttavia vana contro le armi e la tattica impiegata da Bonaparte.
L’ultima città a destare impressione negli ufficiali francesi fu il Cairo, conquistata dopo una marcia infernale nel deserto: esse viene descritta come un cumulo di immondizie, le vie fatiscenti e maleodoranti, inoltre infestata dall’infezione di peste. Gli ufficiali, però, riuscirono comunque a sistemarsi bene, usufruendo dei palazzi dei bey. Passati i primi giorni, l’infezione iniziò a contagiare anche i soldati francesi decimandone diversi; il servizio ospedaliero era pessimo come documentò il commissario di guerra Duval: “Non c’è paglia, non ci sono utensili, nessun medicamento e nulla per i bendaggi: in una parola, manca tutto e i malati sono in uno stato pietoso”.
Secondo la cronaca di el Djabarti, l’entrata di Bonaparte al Cairo fu un trionfo: “Il generale dell’armata francese, Bonaparte, l’amico dei mussulmani, è arrivato a Il Cairo: egli si è accampato ad Adlia con la sua armata ed è entrato in città venerdì da Bab el Nasre (Porta della Vittoria) con un corteo pomposo: gli ulema, gli ufficiali, i funzionari, i principali negozianti del Cairo lo accompagnavano. Il giorno del suo arrivo è stato solenne, farà epoca. Tutti gli abitanti del Cairo che si sono precipitati davanti a lui l’hanno riconosciuto per essere chi egli fosse. Era dunque evidente che avevano mentito a suo riguardo. I mamelucchi e i beduini hanno propagato queste menzogne per far morire i mussulmani e per causare la rovina intera dell’Egitto”.
Conclusione
Il 22 agosto 1799, il generale Bonaparte rimise il comando dell’armata d’Egitto al generale Kléber, promettendo al Divano del Cairo che prima o poi sarebbe ritornato. Le notizie che arrivavano dall’Europa erano troppo gravi: Jourdan stava perdendo la campagna di Germania e il generale Scherer ripiegava di fronte agli austro-russi in Italia. Per Bonaparte la campagna in Egitto e poi quella in Siria furono prive di risultati, ciò nondimeno egli era fermamente convinto che la spedizione francese aveva unito, in qualche modo, le culture d’Oriente e d’Occidente. Da questa esperienza, Bonaparte si rese conto che garantire la libertà di culto era un fatto imprescindibile se si voleva sottomettere un altro popolo.
La teoria dell’Essere Superiore paventata dalla rivoluzione, che vedeva l’uomo al centro dell’universo doveva necessariamente abbinarsi ad un’organizzazione del culto, compreso l’Islam. Bonaparte era fermamente convinto che la religione islamica fosse molto più liberale di quella cattolica; questa idea si basava sul fatto che il Corano permetteva ai monoteisti la libertà di culto, senza alcun tipo di oppressione. Evidentemente la storia gli darà torto, ma tutto rientrerà sotto l’ala della politica e non nella fede religiosa in senso stretto. La storia di Maometto affascinò il comandante francese il quale apprezzava il fatto che fosse un guerriero, ma anche un legislatore e che dosasse a perfezione le due energie: persuasione e forza.
Negli anni avvenire, l’uso accorto e intelligente che l’imperatore fece della propaganda trasformò il disastro in un successo per la cultura di tutto l’occidente: le scoperte dell’Institute d’Egypte raggiunsero le accademie di mezza Europa, le avventure nel deserto costituirono l’ennesima occasione per glorificare il sacrifico dei soldati francesi, ma soprattutto la figura di Bonaparte si permeò di un’aura leggendaria ben raffigurata dal pittore Antoine-Jean Gros che ritrasse il generale intento a curare i malati di peste dopo il terribile assedio di Jaffa nel 1799. Napoleone assurse così a “re taumaturgo” malgrado quell’episodio non trovasse riscontro in nessun rapporto o tantomeno racconto di fedeli o servitori.
Di primo acchito è facile giudicare Bonaparte come un saggio condottiero: egli seppe trarre a suo favore i religiosi mussulmani, romperne la diffidenza e farsi anche aiutare nell’impresa di “civilizzare” uno stato schiavo. Nel fare questo, il comandante francese, fu sempre molto attento a rispettare usi e costumi locali, senza ferire il popolo sebbene in pratica mantenne una durezza repressiva senza eguali. Bonaparte, obbligato dalle circostanze a mettere piede in una terra remota, presentò la spedizione come un atto dovuto verso un popolo incivile che doveva essere liberato. A questo, probabilmente, non credeva neppure lui e l’unica cosa sensata che gli rimase da fare era assimilare i valori e la storia di una cultura millenaria che, per certi versi, riteneva addirittura superiore alla sua.
Fonti
Napoléon Ier, Correspondance Générale, Paris: Fayard, 2005, vol. II.
J. Tulard, Dictionnaire Napoléon, Paris: Fayard, 1999.
J. Christopher Herold, Bonaparte in Egypt, London: Hamilton, 1963.
C. Cherfils, Bonaparte et l’Islam, Paris: Pedone, 1914.
Correspondance de l’Armée Française en Egypte, interceptée par l’escadre de Nelson, Paris: Garnery, an VII.