I rapporti tra Esercito e Marina nell'Italia degli anni '80 del XIX Secolo

(di Filippo Del Monte)
27/03/20

Gli anni '80 del XIX Secolo chiudono la fase immediatamente "post-risorgimentale" per l'Italia e per le sue Forze Armate. Mai come negli anni '80, a fronte delle oggettive inefficienze del decennio precedente e delle ristrettezze economiche di quello successivo, i militari italiani poterono disporre di sostanziosi bilanci e del sostegno fattivo della politica per la modernizzazione e trasformazione di uno strumento fondamentale per qualunque Paese che ambisse a svolgere un ruolo da grande potenza nella fase matura dell'imperialismo europeo.

Se nel 1878 al Congresso di Berlino (immagine apertura) l'Italia aveva visto riconosciuto il proprio status di "grande" in seno al concerto europeo pur non ottenendo risultati diplomatici di rilievo, nel 1882 con la firma della Triplice Alleanza che vedeva Roma alleata di Berlino e Vienna, essa aveva garantito – in seno ad un blocco continentale - la propria sicurezza di fronte alla Francia.

La scelta di legare il proprio destino a quello delle Potenze centrali, se da una parte garantiva all'Italia una certa sicurezza in Europa, dall'altra rischiava di frustrarne le nascenti ambizioni nel Mediterraneo e di questo i più accorti ed avanguardistici settori dell'opinione pubblica, generalmente legati all'industria cantieristica ed alle società geografiche e d'esplorazione, s'erano resi perfettamente conto: l'alleanza con la Germania e l'Austria-Ungheria non offriva al giovane Regno d'Italia quell'ampio spazio di manovra cui invece si ambiva per condurre una propria autonoma politica mediterranea. Esempi concreti di questo limite per Roma furono la rinuncia a schierare un contingente militare in Egitto al fianco dei britannici nel 1882 e la paura di una eventuale occupazione francese delle coste marocchine durante la crisi marocchina del 1884.

L'allora ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini fu costretto a rinunciare all'avventura egiziana – nonostante la garanzia da parte di Londra di una futura spartizione dell'Egitto e quindi con la possibilità di cambiare radicalmente il peso dell'Italia nel Mediterraneo – dopo alterne vicende per mantenere gli equilibri della Triplice Alleanza da poco firmata; così come due anni più tardi, nonostante la Consulta avesse richiesto ai ministri di Guerra e Marina di approntare piani per l'occupazione della costa tripolina in risposta ad eventuali azioni francesi, si preferì evitare una mossa di questo tipo poiché la Triplice non garantiva agli italiani – per come era strutturata nel primo trattato – il sostegno degli alleati austro-tedeschi nelle questioni mediterranee.

In questo quadro è fondamentale analizzare i rapporti tra l'Esercito e la Marina poiché per una eventuale "politica mediterranea" dell'Italia grande importanza avrebbe rivestito lo strumento militare marittimo e di quello terrestre sarebbero stati ripensati i compiti. In quegli anni la Marina aveva sviluppato un programma d'ammodernamento che faceva delle grandi corazzate il suo fulcro, da qui grandi vantaggi per l'industria cantieristica nazionale e per quella dell'acciaio – cui pure era interessato l'Esercito – con la costruzione di un grande stabilimento come quello di Terni.

Il rafforzamento della Marina Militare equivaleva, per la classe dirigente italiana, ad una "scorciatoia" per raggiungere quello status di grande potenza cui si ambiva e per garantire gli interessi nazionali a fronte delle politiche muscolari dei rivali più diretti che proprio in quegli anni trovavano compimento: con la spedizione egiziana e la riedizione della "politica delle cannoniere" nel porto di Alessandria del 1882 la Gran Bretagna aveva sanzionato il suo interesse alla piena agibilità per i suoi commerci mediterranei nonché l'interesse a mantenere sotto stretto controllo le acque orientali del Mare Nostrum; i francesi nel 1881 avevano occupato la Tunisia a discapito dell'Italia ed avevano mire palesi sul Marocco nell'ottica di ipotecare il controllo del Mediterraeo occidentale.

A fronte di ciò l'Italia sembrava incapace di garantire la libertà dei propri commerci nel "giardino di casa" – da qui le forti pressioni dei settori della Marina Mercantile al governo per la concessione di ingenti somme alla Marina Militare per investimenti straordinari d'ammodernamento – e quindi di affermare il proprio diritto di potenza mediterranea all'imperium maris obtinendo.

Un eventuale rafforzamento della Marina Militare italiana era guardata inoltre con sospetto dall'alleata Austria-Ungheria, ostile alla presenza navale straniera nell'Adriatico, foriera di possibili ambizioni politiche oltre che commerciali nei Balcani, considerati da Vienna come una propria zona d'influenza esclusiva. Il pericolo maggiore per l'Italia era però rappresentato dalla Francia – e la Triplice era stata stipulata proprio in funzione antifrancese – capace di proiettare la propria potenza terrestre e marittima direttamente in territorio italiano. Tra gli ufficiali della Marina italiana in quegli anni si faceva largo la teoria strategica offensivistica britannica della blue water school e cioè della ricerca della flotta avversaria in alto mare per lo scontro risolutivo mettendo fine al predominio degli "attendisti" sostenitori della flotta in potenza che avevano spadroneggiato negli anni traumatici post-1866. I timori d'una offensiva anfibia francese nel Tirreno spingeva gli ambienti dell'Esercito a giudicare severamente i propositi offensivisti della Marina vista ancora, a torto, come la "sorella minore" della forza terrestre e quindi impossibilitata a contrastare la potente flotta transalpina.

Per il generale Cesare Ricotti Magnani (nell'immagine) "il vero compito della Marina dovrebbe essere quello di evitare i combattimenti e di costituire una continua minaccia" onde evitare sbarchi francesi lungo le coste laziali o toscane. Quando Ricotti tornò a dirigere il Ministero della Guerra (1884-1887) la sua linea politico-strategica sul tema era volta a rafforzare il primato dell'Esercito sulla Marina nonostante alcuni tra gli ufficiali del Corpo di Stato Maggiore avessero sostenuto la necessità di riconsiderare, su un piano di parità, i rapporti tra la componente terrestre e quella marittima delle Forze Armate nazionali. La tesi secondo cui i progetti della Marina andassero sostenuti da una strategia più aggressiva dell'Esercito – e quindi spostare il principale teatro di eventuali azioni contro la Francia dall'arco alpino, che avrebbe rivestito funzione di "blocco difensivo", al Mediterraneo – andava per la maggiore tra gli ufficiali "offensivisti" ma era vivamente osteggiata dal ministro.

Le "manovre con quadri" e le esercitazioni pianificate e dirette dal capo di Stato Maggiore, il generale Enrico Cosenz, prevedevano in quegli anni, a prescindere dallo scenario scelto, sempre uno sbarco francese lungo le coste tirreniche con la necessità per le forze italiane di resistere all'urto offensivo avversario nel cuore della Penisola e di dover manovrare in attesa di rinforzi.

Uno scenario da incubo con cui lo Stato Maggiore puntava a preparare gli ufficiali effettivi del Corpo e quelli destinati altrove ma che metteva in evidenza la sfiducia generale dell'Esercito nei confronti della Marina che, in queste esercitazioni, era sempre considerata "sconfitta in alto mare" dalla controparte francese.

Le coste erano quindi indifese ed i francesi avrebbero potuto tentare sbarchi al sud (esercitazione 1880), tra Napoli e Gaeta (esercitazione 1881) o, addirittura, effettuare un doppio sbarco a Orbetello ed uno ben più pericoloso tra Roma e Civitavecchia con la possibilità o di puntare direttamente sulla Capitale o di spezzare in due il meccanismo difensivo italiano occupando il monte Amiata (esercitazione 1882).

Nel 1883 il vicecomandante del Corpo di Stato Maggiore, generale Agostino Ricci, aveva prima sperimentato la difesa della strada Firenze-Viareggio per proteggere la ferrovia strategica Firenze-Pistoia e poi, durante le manovre combinate tra Esercito e Marina effettuate nei dintorni del golfo di Napoli, teorizzando di utilizzare il naviglio italiano per attaccare i convogli francesi durante le operazioni di sbarco, aveva ugualmente invitato la Marina a non effettuare attacchi che avessero scopo diverso da quello di ritardare (non bloccare) lo sbarco nemico.

Nel novembre 1884 le "manovre con i quadri" del Corpo di Stato Maggiore erano state effettuate con l'intento di saggiare la possibilità di distaccare forze consistenti da Roma ed inviarle ai Colli Albani onde fronteggiare l'attacco francese successivo ad uno sbarco indisturbato.

Nel 1885 al lago di Maccarese vennero analizzati dagli ufficiali dello Stato Maggiore tutti i particolari logistici di una difesa in profondità della Capitale e l'anno seguente, ipotizzando già occupata Frosinone dopo uno sbarco nemico nella zona di Terracina, si studiò il modo per arginare gli effetti di un secondo sbarco francese dalle parti di Civitavecchia.

Il 1886 fu interamente dedicato all'analisi di una risposta italiana difensiva-controffensiva sempre nell'ipotesi di uno sbarco francese mentre l'anno seguente su proposta del generale Baldassarre Orero, le "manovre di quadri" si concentrarono sulla necessità di liberare il porto di La Spezia occupato dai francesi, così come agli aspiranti ufficiali del Corpo di Stato Maggiore, per il loro esame d'ammissione finale era stato chiesto di lavorare ad un piano difensivo nel caso il nemico avesse attuato una ingente operazione con sbarchi multipli convergenti su Genzano e, da lì, direttamente contro Roma.

Le preoccupazioni dello Stato Maggiore, come già si è detto, erano dovute alla sfiducia generale nei confronti delle capacità belliche della Marina che, in tutti gli scenari ipotizzati, era data per sconfitta e mai capace di fornire un contributo alla difesa del territorio nazionale.

Il dibattito si accese di nuovo, sia in seno alle commissioni tecniche che sulla stampa militare, circa il sistema di fortificazioni (il più famoso esempio resta il campo trincerato di Roma) dell'entroterra, frutto non tanto di una convinzione strategica radicata nei circoli militari sull'utilità delle fortificazioni campali, quanto piuttosto, il preconcetto – non supportato da dati fattuali – secondo cui la costa sarebbe stata indifendibile vista la superiorità numerica della flotta francese.

Il ragionamento in questione era probabilmente anche dettato dal "numerismo" di Ricotti e dei suoi – invero pochi ma influenti – sostenitori mentre gli offensivisti raggruppati attorno alla rivista L'esercito italiano avevano ben altra concezione del ruolo della Marina e dell'apporto che essa, sia in ambito politico che in ambito militare, avrebbe potuto dare all'Italia.

Le due tesi strategiche sulla Marina potevano avere sbocchi politici differenti: o si sosteneva militarmente e finanziariamente la funzione di "supplente" della Marina e quindi si favoriva la strategia della flotta in potenza o si accettavano le richieste dei più giovani ed intraprendenti quadri dello Stato Maggiore e si optava per dirottare ingenti fondi verso l'industria cantieristica per completare l'ambizioso piano di riarmo e potenziamento della Marina tanto da metterla nelle condizioni di affrontare e sconfiggere la flotta francese in alto mare e consentire all'Esercito di passare immediatamente all'offensiva con il massimo delle forze a disposizione. Tertium non datur.

Eppure la Legge navale del 1886 lasciò insoluta la questione senza dare direttive strategiche, come era nella prassi politico-amministrativa del trasformismo allora imperante. Tanto il presidente del Consiglio Agostino Depretis quanto i ministri della Guerra e della Marina Cesare Ricotti Magnani e Benedetto Brin (foto), preferirono "vivacchiare" all'ombra delle ingenti cifre stanziate senza però decidere come utilizzarle e, anzi, "rimpallandosi" milioni di lire ora per questo ora per quel provvedimento senza risolvere i problemi dell'Esercito e della Marina.

Fu il generale Agostino Ricci a mettere in evidenza l'assurdità della situazione proponendo alla Camera, durante la discussione sul bilancio della Marina Militare per l'esercizio 1885, di destinare una forte somma per le esigenze dell'Armata così da risolvere una volta per tutte i problemi relativi sia alla cantierizzazione delle nuove corazzate sia alla difesa di un arsenale importante come quello di La Spezia abbandonando la triste prassi degli stanziamenti effettuati con il contagocce e, per giunta, ex post.

Ricci era un ufficiale dell'Esercito da sempre interessato allo sviluppo della Marina come forza di proiezione e come strumento di sostegno fattivo alle operazioni terrestri; convinto assertore della politica mediterranea dell'Italia, il vicecomandante del Corpo di Stato Maggiore era dell'idea che non si dovesse lasciare "formare intorno a noi, nel Mediterraneo e nell'Adriatico, un vero anello di ferro che ci soffocherà e che dovremo spezzare con la forza, un giorno in cui ci sentiremo portati ad espanderci" raccogliendo le aspirazioni e le idee di quanti, militari e politici, nutrivano per l'Italia ambizioni da grande potenza.

La spedizione coloniale di Massaua del 1885 (foto) sembrò dare ragione agli offensivisti con una collaborazione fattiva tra forze terrestri e navali, almeno fino a che il colonnello Tancredi Saletta non entrò in contrasto con il contrammiraglio Raffaele Noce. Pur esprimendo dubbi sulle reali capacità italiane di poter mantenere un contigente terrestre e navale nel Corno d'Africa senza avere possibilità di proiezione nel Mediterraneo, gli alti comandi di Roma notarono la buona prova "interforze" espletata in condizioni del tutto nuove e difficili.

L'Esercito andò così consolidando il suo ordinamento, sviluppando una nuova dottrina offensivista prendendo in considerazione anche l'impiego di forze in teatri lontani dai confini nazionali; la Marina incrementò la flotta e vide aumentare gli stanziamenti finanziari in suo favore con un ritmo di crescita superiore a quello della controparte terrestre (seppur quelli dell'Esercito restassero di gran lunga più consistenti in termini quantitativi).

Quando nel 1887 Ricotti e Brin presentarono un progetto di legge congiunto per assegnare 15 milioni a testa per Esercito e Marina quella che da più parti era definita come "opposizione militare" lanciò i suoi strali contro i "ministri siamesi" evidenziando come l'armonia politica tra Esercito e Marina – che era il messaggio che dai ministeri si voleva veicolare – non avrebbe comunque garantito, con lo stanziamento di somme "ridicole", il salto di qualità necessario ad imboccare la strada della politica di potenza. Caduto Ricotti nel 1887 sull'onda dell'eccidio di Dogali e "smembrato" il suo sistema di potere politico ed amministrativo al Ministero della Guerra, la nuova gestione del generale Ettore Bertolè Viale – diretta emanazione di Re Umberto I e del suo "partito di Corte" – diede nuovo impulso all'offensivismo e ad una "divaricazione" tra le competenza delle rispettive forze armate nell'ambito di un processo che sarebbe arrivato a maturazione solo nel decennio successivo.

Tracciando un bilancio di quanto fatto negli anni '80 dell'Ottocento per lo sviluppo di una strategia nazionale politico-militare offensivista, esso può essere, pur con tutte le contraddizioni, positivo. Nonostante la politica della "sosta" voluta da Ricotti – più attento alle richieste restrittive del Ministero delle Finanze che a quelle provenienti dallo Stato Maggiore dell'Esercito – e l'attendismo di Brin, sia la componente terrestre che quella navale delle Forze Armate cambiarono radicalmente il loro modo di rapportarsi alle grandi questioni politico-strategiche dell'area mediterranea che diventava sempre più il fulcro della futura proiezione italiana, visione questa confermata anche dal nuovo impegno coloniale a Massaua che entro il 1890 si sarebbe esteso a tutta l'Eritrea.

Uno dei fattori che aveva spinto il governo italiano a mettere piede in Eritrea era stato quello di influire "indirettamente" ma massicciamente sulla politica mediterranea tentando di ritagliare per Roma quello spazio d'azione autonoma che le era negato, per questione d'equilibri, nell'Adriatico e nell'Africa settentrionale.

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