Le prime scosse connesse alla Guerra del Kosovo iniziarono già negli anni ‘80, quando i movimenti politici kosovari iniziarono ad organizzarsi attivamente. Nel 1982, infatti, dopo un estenuante susseguirsi di disordini e tensioni, i servizi segreti Jugoslavi uccisero i fratelli Gervalla e Kadri Zeka (foto apertura), i quali si trovavano alla guida del movimento politico per la liberazione del Kosovo.
Qualche anno dopo, tra il 1989 e il 1990, Slobodan Milošević sospese definitivamente le autonomie del Kosovo e della Vojvodina.
Nel marzo 1998, dopo tre guerre di aggressione (rispettivamente contro la Slovenia e la Croazia nel 1991 e la Bosnia-Erzegovina tra il 1992 e il 1995), i crimini di guerra commessi nella Slavonia1 orientale e il tristemente noto genocidio in Bosnia, il regime di Milošević diede inizio ad una brutale repressione ai danni della popolazione albanese e dei gruppi di guerriglieri della provincia autonoma del Kosovo.
Per più di 10 anni, i quasi 2 milioni di albanesi del Kosovo, guidati dal loro presidente eletto Ibrahim Rugova, si sono difesi prevalentemente con mezzi non violenti e con forme di resistenza pacifica. I governi occidentali hanno assistito passivamente alle continue violazioni dei diritti umani e politici in Kosovo e all'aumento spropositato dei flussi di profughi albanesi verso i paesi dell'Europa centrale, inclusa l'Italia2. Dagli anni ’90 ad oggi, questo esodo ha superato le 300.000 unità.
Alla spirale di violenza, il governo di Belgrado, allora “rappresentante” del territorio, rispose con il pugno di ferro: secondo quanto sostenuto dal governo serbo però, agli albanesi del Kosovo vennero riconosciuti, in quanto possessori di cittadinanza e facenti parte di una minoranza, tutti i diritti civili e politici, secondo i più elevati standard internazionali. Ciò nonostante, i cittadini sfruttarono la situazione per cercare di realizzare le ambizioni separatiste e irredentiste: il governo centrale ebbe quindi il “dovere” di reprimere questi movimenti e agli Stati esteri non venne data alcuna possibilità di intervenire e di alimentare le tensioni3.
In realtà, Milošević si sentì comunque ormai pienamente legittimato, nella sua autoassegnata libertà d’azione in Kosovo4, per il fatto che quella specifica situazione non venne mai sollevata dalle potenze occidentali (anche se queste ultime intervennero nella regione già nel 1995 attraverso gli Accordi di Dayton5 - foto).
Iniziò così la politica repressiva di Miloševič contro i kosovari di etnia albanese.
Questa campagna si distinse negli anni per i molteplici massacri, per l’altissimo numero di vittime civili (con più di 11.000 vittime albanesi confermate6, anche se si stima un numero decisamente maggiore) e per la distruzione di moltissime abitazioni private, scuole e altri edifici, tra cui diverse moschee7.
Una parte della popolazione albanese appoggiò apertamente la guerriglia, mentre la restante (composta da circa 800.000 civili) fuggì dal Kosovo dirigendosi verso l'Albania e, soprattutto, verso la Macedonia.
In quest’ultima regione vi si rifugiarono, tra l'altro, anche numerosi combattenti dell'UCK che, nel 2001, divennero protagonisti di ulteriori disordini e di alcune ribellioni, provocando e costringendo infine l'esercito macedone ad intervenire fino ad un vero e proprio conflitto.
Gli scontri, considerati come l'ultima fase delle guerre jugoslave, scoppiarono infatti quando l'Esercito di Liberazione Nazionale albanese attaccò le forze di sicurezza della Repubblica di Macedonia all'inizio del gennaio del 2001.
Per inciso, l'Ushtria Çlirimtare e Kosovës (Kosovo Liberation Army - KLA), o UÇK, nome albanese dell'Esercito di Liberazione del Kosovo (ELK), è stata un'organizzazione paramilitare kosovaro-albanese che ha operato in Kosovo e nella parte meridionale della Serbia centrale, prima dello scoppio della Guerra del Kosovo del 1999.
Un'organizzazione parallela, nota con la stessa sigla UÇK (Ushtria Çlirimtare Kombëtare o Esercito di Liberazione Nazionale), ha operato nella Repubblica di Macedonia tra la fine del 2000 e la primavera del 2001 durante i sanguinosi scontri che hanno coinvolto la minoranza albanese.
Ritornando al Kosovo, nel 1999 scoppiò un vero e proprio conflitto armato che vide l'intervento di un’alleanza di forze internazionali in protezione della componente albanese del Kosovo, presa di mira dal governo centrale di Belgrado. La pulizia etnica fu interrotta e le due controparti, quella serbo-kosovara e quella kosovaro-albanese, furono invitate, anche se inutilmente, a trovare una soluzione pacifica e comune.
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1 La Slavonia, o Schiavonia, è una regione geografica e storica della Croazia orientale.
3 Sahin S. B., "The use of the 'exceptionalism' argument in Kosovo: an analysis of the rationalization of external interference in the conflict", in Journal of Balkan & Near Eastern Studies 11, no. 3, 2009, pp. 235-255.
4 Russell P., "The exclusion of Kosovo from the Dayton negotiations", in Journal of Genocide Research, 11, no. 4, 2009, pp. 487-511.
5 L'Accordo di Dayton, ossia l'Accordo Quadro Generale Per la Pace in Bosnia ed Erzegovina (General Framework Agreement for Peace (GFAP)), anche conosciuto come Protocollo di Parigi, fu stipulato tra il 1° e il 21 novembre 1995 nella base aerea USAF Wright-Patterson di Dayton, Ohio (USA), con il quale ebbe termine la guerra in Bosnia ed Erzegovina.