La battaglia riemersa

(di Paolo Palumbo)
27/07/18

Siamo in una piccola stanza dove la luce è ridotta al minimo per non interferire con la lucentezza emanata da sei schermi digitali sui quali vengono proiettate immagini emozionanti. Come sottofondo un ronzio continuo, che quasi culla le nostre sensazioni e la consapevolezza di trovarci di fronte ad un evento importante per l’archeologia subacquea e per le vicende militari navali del XVIII secolo. Questo è lo scenario dove si svolge il racconto che stiamo per farvi: una storia affascinante, da riscrivere grazie a ciò che dopo secoli il mare restituisce all’occhio umano.

Siamo a bordo della nave della Marina Militare Anteo la quale, malgrado i suoi anni, è sempre in condizioni operative ottimali, specialmente per merito del continuo lavoro di manutenzione attuato dal suo equipaggio. Su una nave tutto funziona come un orologio, non esistono momenti morti, poiché tutti fanno parte di un complesso ingranaggio che non si arresta mai, nemmeno in piena notte. L’Anteo da qualche giorno si trova ormeggiata davanti Finale Ligure e a bordo ospita l’élite della Marina Militare, vale a dire i palombari del COMSUBIN un reparto d’eccellenza invidiatoci da tutto il mondo. In mezzo ad uniformi blu e qualche mimetica circolano personaggi in abito civile i quali, malgrado non siano militari, sembrano trovarsi a proprio agio tra sartiame e tubature in acciaio: sono studiosi e archeologi della Sopraintendenza che da giorni lavorano a stretto contatto con il personale della Marina Militare.

Una storia da riscrivere

La storia navale del XVIII secolo, ma anche di quello successivo, è contraddistinta dall’eterno duello tra le flotta britannica e francese. La Francia del 1795 era appena uscita dagli anni turbolenti della Rivoluzione e il nuovo direttivo si preparava a diffondere i nuovi ideali di libertà e uguaglianza portando il messaggio a tutte le nazioni europee sulla punta delle baionette dei soldati. Le principali monarchie, rette da casati secolari, videro minacciata non solo la loro integrità territoriale, ma soprattutto il principio cardine attorno al quale ruotava il loro potere. Via terra le armate Repubblicane annoveravano ufficiali straordinari, tra i quali un giovane Napoleone Bonaparte il cui astro nascente aveva appena iniziato a brillare. Sul mare però le cose andavano diversamente poiché a regnare sui flutti c’erano i vascelli della Royal Navy sebbene la marina britannica non fosse al massimo della sua efficienza. William Pitt, memore di quando la flotta inglese dominava i mari di mezzo mondo, superò la crisi economica imposta dalla guerra in America mettendo in cantiere 33 nuove navi e riparandone altre 601. Gli inglesi erano orgogliosi della loro marina militare, ciò nondimeno il metodo di arruolamento forzoso detto “press-gang” era alquanto avverso: i giovani – spesso gli sbandati – venivano prelevati con la forza e imbarcati contro la loro volontà. Nel 1792 tale consuetudine fu abbandonata a favore di un arruolamento secondo principi più umani e regolari.

Tra i due contendenti la Marina francese versava in condizioni decisamente peggiori poiché la rivoluzione del 1789 aveva sfoltito i quadri ufficiali, molti dei quali – contrari ai principi rivoluzionari – erano fuggiti all’estero; oltre a queste motivazioni politiche, nel 1793 la conquista inglese del porto di Tolone aveva ulteriormente aggravato la situazione con la rovinosa perdita di buona parte della flotta di Levante2.

Per altro, Tolone rappresentava un punto di partenza formidabile per procurarsi il controllo della Corsica la quale fu diverse volte sul punto di essere abbandonata volontariamente dai francesi3. Fu l’ammiraglio Lord Hood e il suo consigliere politico a Tolone, Sir Gilbert Elliot a muovere la flotta britannica verso al conquista della Corsica. L’isola era difesa da una guarnigione di circa 3.500 soldati concentrati a Bastia e Calvi, due cardini che divennero l’obiettivo principale della forza di sbarco inglese. Proprio davanti a Bastia incrociava il vascello Agamemnon (immagine), al comando di Horatio Nelson con il compito di cannoneggiare le coste. Grazie all’intraprendenza del Maggiore Generale James Stuart e allo stesso giovane Nelson, la piazzaforte di Calvi cadde il 10 agosto.

Un anno dopo i francesi, che avevano compreso a proprie spese l’importanza dell’isola, organizzarono una spedizione armata per riconquistarla e in tale contesto, nel marzo 1795, ebbe luogo lo scontro tra le flotte inglese, francese e napoletana a largo di Capo Noli, o altrimenti detta battaglia di Genova.

La flotta inglese comandata dal vice-ammiraglio William Hotham presidiava il Mediterraneo da Livorno con 4 navi di linea da tre ponti (il Britannia da 100 cannoni, seguito dal Princess Royal, St. George e il Windsor Castle da 98 cannoni) e 8 vascelli da 74 cannoni tra cui l’Agamemnon (da 64 cannoni) di Nelson e un vascello della marina napoletana (il Tancredi) comandato dal cavaliere Francesco Caracciolo.

Il ruolo giocato dalla marina napoletana è un altro punto sul quale ci saranno dei risvolti poiché, sempre secondo quanto documenterà a fine ricerca lo storico locale Sandro Garulla, il ruolo dei napoletani è stato volutamente sottostimato dagli inglesi. La flotta francese, comandata dall’ammiraglio Pierre Martin (in totale 15 vascelli, 7 fregate e 15 corvette), era pronta per sferrare l’attacco in direzione della Corsica tentando uno sbarco in forze. Le navi inglesi che sorvegliavano quella parte di mare avvertirono l’ammiraglio Hotham dei movimenti della flotta di Martin la quale era in procinto di togliere l’ancora per mettersi in rotta verso l’isola; inoltre i francesi avevano anche catturato il Berwick sfortunatamente incappato nell’avanguardia nemica. Nonostante l’apparente vantaggio Pierre Martin non ebbe l’ardire di puntare la prua delle sue navi verso la Corsica preferendo l’area più sicura a largo della Provenza4. Nel puntare la prua verso le coste provenzali le navi francesi incontrarono quelle inglesi davanti al golfo di Genova; l’ammiraglio Martin non era entusiasta all’idea di scontrarsi con gli inglesi i quali avevano il Britannia con le sue 100 bocche da fuoco pronte a colpire la squadra francese. Il 13 marzo, conformemente agli ordini della Convenzione, il comandante francese fece uscire le sue navi per dare battaglia: il vascello da 80 cannoni Ça ira al comando del capitano Coudé urtò senza volere la nave che lo precedeva, danneggiando gravemente i suoi alberi. A quel punto il Ça ira non ebbe più possibilità di manovrare trasformandosi in un facile bersaglio per i cannoni nemici; la piccola fregata la Vestale, che veleggiava in prossimità, provò ad avvicinarsi per tirarlo a rimorchio proprio mentre stava incrociando l’Agamemnon del capitano Nelson. L’inglese non perse un momento e ordinò di aprire il fuoco: le prime bordate delle sue 60 bocche da fuoco causarono danni irreparabili al vascello francese. La piccola fregata transalpina aveva dato prova di coraggio, ma fu costretta a lasciare il tratto di mar ligure a favore del Censeur che si pose di fianco alla nave francese danneggiata.

L’indomani mattina, il 14 marzo al levar del sole, gli inglesi approfittarono di una leggera brezza di vento per dirigersi sulle due imbarcazioni francesi rimaste isolate. Il Captain e il Bedford due vascelli da 74 cannoni aprirono il fuoco sulle navi dei capitani Coudé e Benoit; il Ça ira, malgrado fosse quasi immobilizzato, insieme al Censeur contrattaccarono di pari forza i vascelli britannici. L’eroismo degli equipaggi francesi condusse ad una breve vittoria sulle navi di Hotham le quali subirono danni importanti. La squadra inglese, in vantaggio numerico, riprese la rotta verso i francesi in grande stile, schierando l’Illustrious, la Le Courageux e la Princesse Royale tutte da 98 pezzi, in più sopraggiunse Nelson con l’Agamemnon. Dopo diverse ore di combattimento i pezzi incandescenti delle navi francesi furono messi a tacere dagli inglesi: il Censeur fu dato alle fiamme mentre quel che restava del Ça ira venne catturato.

Questi, secondo le fonti pubblicate dai francesi, gli eventi di quelle due giornate di marzo, ma i recenti ritrovamenti e il materiale archivistico ancora da studiare, riveleranno presto delle novità: né i rapporti inglesi, né quelli francesi, menzionano la Tancredi dimenticandosi della sua partecipazione allo scontro. Oltre ai contributi cartacei, i fondali del mare sono l’archivio più grande del mondo, peccato che sovente sia arduo recuperare i “documenti”. Gli abissi e la natura sottomarina non concedono a tutti i subacquei di essere raggiunti e i relitti rischiano di rimanere intrappolati dal forte abbraccio del mare, ma c’è qualcuno per cui la parola impossibile non esiste, specialmente quando si tratta di abissi marini.

Operazione recupero

La profondità del mare resta uno degli ambienti più ostili all’essere umano: in pochi accettano la sfida e solo grazie ad una faticosa preparazione possono ottenere il suo rispetto, ma mai vincerlo. Uomini dotati di fisico e intelligenza che da 165 anni formano una delle categorie d’élite della Marina Militare: i palombari. Grazie al loro lavoro la storia della battaglia di Capo Noli riemergerà dagli abissi, pronta a raccontarci una verità diversa su quelle terribili giornate. I ragazzi del GOS (Gruppo Operativo Subacquei) del COMSUBIN non nascondono l’emozione a prova che ogni missione a loro affidata è permeata di entusiasmo e molta concentrazione. Quello a cui abbiamo assistito è una delle procedure più articolate previste per i palombari del GOS: l’immersione in saturazione. Per 10 giorni gli operatori scelti per immergersi hanno soggiornato in un ambiente iperbarico, vivendo in uno spazio angusto di soli 18 metri cubi nel quale l’aria che respiravano era una miscela ternaria di elio, ossigeno e azoto regolata da medici specializzati. Siamo entrati dentro uno di queste stanze (se così si possono definire) e per un attimo abbiamo avvertito una sensazione di soffocamento: l’intero iter preparatorio – spiega il capitano di fregata Giampaolo Trucco – è imperniato sulle capacità fisiche del palombaro, ma soprattutto poggia sul suo equilibrio mentale. Ogni respiro o pulsazione cardiaca è monitorata da personale sanitario specializzato in medicina subacquea e tutto si svolge entro parametri di sicurezza davvero maniacali.

Accediamo poi ad un piccolo locale, rischiarato da schermi che proiettano i fotogrammi degli operatori al lavoro da ogni possibile angolazione, compresa una webcam piazzata sulla muta: in totale sono tre, due in immersione e l’altro (detto Tender) che – alloggiato in una piccola campana funge da collegamento con la nave e da supporto nel caso un suo collega sia in difficoltà. Un fattore importante da ricordare è come il palombaro al lavoro abbia il cervello impegnato al 100% verso i compiti che deve svolgere, senza preoccuparsi di altre funzioni. La sue condizioni fisiche e l’aria che immette nei polmoni è verificata direttamente a bordo da un infermiere qualificato, pronto ad intervenire al minimo sbalzo di valori.

Ma torniamo sul fondo...

I due palombari all’opera dispongono di vari attrezzi per districarsi nell’ambiente marino, tra i più importanti vi è la cosiddetta sorbona, una sorta di potente aspiratore subacqueo che ripulisce l’ambiente perlustrato da terra e detriti. Nella fattispecie, nei giorni precedenti al nostro arrivo, i ragazzi del GOS avevano già “portato a casa” diversi resti di inestimabile valore, compreso un sestante, un cannocchiale, piatti smaltati in ceramica e qualche arma. Vicino al personale della marina sedeva l’archeologo Simon Luca Trigona della Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio della Liguria con il volto teso da giorni di impegno, ma sempre famelico di nuove scoperte. Ogni istante in cui i palombari smuovevano il fondale affiorava qualcosa di sensazionale e non abbiamo dovuto aspettare molto affinché il mare ci ricordasse che li sotto erano risposavano tanti valorosi marinai: il rinvenimento di frammenti di ossa e calotte craniche erano, infatti, la cruda testimonianza della morte in battaglia.

L’operazione di archeologia subacquea avviata a largo di Finale è un ottimo esempio di sinergia tra autorità civili e militari. I palombari del GOS sono impegnati in continui addestramenti per affinare le loro tecniche e mantenere l’alto standard operativo che li contraddistingue: perché dunque non sfruttare l’occasione e fornire un supporto utile alla società? Se nel campo civile si fosse organizzata una campagna archeologica simile, i costi sarebbero stati esorbitanti, mentre questo esborso rientra nel normale bilancio della Marina Militare. L’input è arrivato proprio da appassionati civili, i sommozzatori della GUE Italia i quali per primi hanno trovato il relitto e fatto i rilevamenti iniziali: si è aggiunta poi la competenza storica di Sandro Garulla dell’Associazione 1795 e successivamente la Soprintendenza e la Marina Militare. Il 19 luglio 2018 si è conclusa la seconda parte di un progetto più ampio che, nella speranza di tutti, potrebbe riprendere molto presto per portare in superficie nuove interessanti scoperte.

Il Gruppo Operativo Subacquei (GOS)

Parlando di palombari della ci sopravviene alla mente un bellissimo film con Robert de Niro intitolato “Men of Honour” nel quale era raccontata la storia del primo palombaro di colore della US Navy. In questo lungometraggio, trasudante di valori e patriottismo, emergeva soprattutto il difficile addestramento a cui erano sottoposti i marinai che aspiravano a immergersi, con pesanti scafandri, ben oltre la chiglia delle navi. Mentre la marina americana sciorina film del genere, pochi sanno però che nello stesso periodo – siamo nella Seconda Guerra Mondiale –la marina italiana sulle tecniche d’immersione era sempre un passo avanti rispetto qualsiasi forza navale belligerante.

La scuola palombari, istituita a Genova il 24 luglio 1849, fu voluta appositamente per formare del personale capace di scendere ai 10 metri di profondità e recuperare quello che si era perso in mare. Nel 1910 i corsi si spostarono a Varignano, cuore pulsante del COMSUBIN, dove i palombari aumentarono le loro competenze e iniziarono a cimentarsi nel difficile compito di neutralizzazione degli ordigni esplosivi subacquei. Una cosa che il Capitano di Fregata Trucco ci ha spiegato è che per fare il palombaro servono qualità fisiche, ma soprattutto tanta voglia di dedicarsi allo studio poiché – usando le sue stesse parole – “ogni movimento che fa un palombaro quando si trova sul fondo è legato alla conoscenza di una legge fisica”. Il corso per diventare palombaro del COMSUBIN dura 11 mesi: in una prima fase l’allievo impara il mestiere secondo i canoni della vecchia tradizione, per poi accedere alla fase più contemporanea e tecnologica.

Oggi l’operatore del GOS è in grado di confrontarsi con tutti i sistemi per immersione esistenti, dagli autorespiratori ad ossigeno a quelli a miscele di gas, dai sistemi asserviti dalla superficie agli impianti integranti per immersioni profonde, dal tradizionale scafandro palombaro allo scafandro rigido articolato ADS (Atmospheric Diving System) per immersioni fino ai 300 metri. L’esercitazione “archeologica” alla quale abbiamo assistito non è stata ideata per recuperare relitti, bensì salvare vite umane. L’obiettivo delle immersioni in saturazione è, infatti, prepararsi al soccorso del personale dei sommergibili sinistrati: insieme alla nave Anteo i palombari del GOS sono gli unici a poter salvare la vita ai marinai intrappolati in un sottomarino in avaria. A tal fine esiste la SPAG (Submarine Parachute Assistance Group), un’unità aviotrasportata sempre pronta ad intervenire nel caso si verifichi una simile circostanza. Gli incarichi assegnati al gruppo di palombari (composto da pochissimi elementi) sono svariati e nessuno può definirsi facile: sottoposti alla pressione del mare, con una visibilità ridotta, la parola “facile” non è contemplata. Tuttavia ogni operatore, quando indossa i suoi attrezzi da lavoro, ha in mente solo una cosa: dare il suo meglio e mettere in pratica alla perfezione tutto quello che gli è stato insegnato da marinai con più esperienza di lui. Non esiste approssimazione e i margini di errore – a 300 metri sott’acqua – sono pari a zero.

Il servizio verso la comunità – ha specificato l’ammiraglio Paolo Pezzuti, comandante del Raggruppamento Subacquei e Incursori “Teseo Tesei” – è un fattore importante per la vita di un reparto come il GOS; lo hanno dimostrato anche in situazioni tragiche come l’emergenza della Costa Concordia o il crollo della Torre Piloti a Genova. Sono combinazioni felici, uniche, che portano due mondi diversi – quello militare e civile – verso un reciproco apprezzamento: la formazione del personale della Marina Militare, del GOI e del GOS rappresentano il fiore all’occhiello della nostra nazione.

1 Arthur Bryant, The Years of Endurance 1793-1802, London, Book Club Ass, 1967, p. 82.

2 Arnaud Bernard, “Napoléon et la marine ou l’historie d’un malentendu”, Napoleonica, La Revue 2010/2 (N. 8), p. 58.

3 Nel gennaio 1793 il Comitato di Difesa generale francese pose la questione circa un eventuale abbandono della Corsica per serrare le proprie difese sulle coste del Mediterraneo. Fu grazie all’intervento di Christophe Saliceti, l’unico rappresentante dell’isola ad aver votato per la morte del re, che la Corsica non fu abbandonata. Nel mese di marzo furono prese le misure necessarie per la difesa. Dal punto di vista politico però le cose non andavano bene poiché il governo francese aveva di fatto sottomesso gli isolani e l’arresto di Pasquale Paoli e di Pozzo di Borgo aveva contribuito al peggioramento dei rapporti. L’inasprimento del clima e la vicinanza della flotta inglese spinse i corsi verso una trattativa che avrebbe consegnato l’intero territorio a Giorgio III. Ciò avvenne ufficialmente nel giugno del 1794 quando una Consulta riunitasi a Corte stabilì il passaggio ufficiale della Corsica alla Gran Bretagna. Jean Defranceschi, Corse, in Jean Tulard (sous la direction de), Dictionnaire Napoléon, Paris, Fayard, vol. 1, pp. 559-560.

4 Jurien de la Gravière, Guerres Maritimes sous la République et l’Empire, Paris, Charpentier ed., 1879, vol. 1, p. 79.