Alla domanda se vi sia pericolo di un confronto armato tra USA e Cina si fa spesso riferimento a quella che Graham Allison ha battezzato come la Trappola di Tucidide: la possibilità, nella storia accaduta più volte, che una potenza emergente inneschi un conflitto con una già affermata.
Proprio quello che, sul finire del V secolo a.C., accadde tra Atene e Sparta, nonostante le due città fossero da tempo legate con un trattato di amicizia, che però non impedì l’affiorare da parte ateniese della percezione di una crescente minaccia, che ebbe poi il tragico epilogo che tutti conosciamo.
È questa, tra l’altro, una situazione tutt’altro che rara nella storia, che Allison ha studiato altre 16 volte1, e che (solo) in quattro casi non è sfociata in un conflitto armato.
È allora immediato il parallelo con quanto accade oggi tra Cina, potenza in divenire, e USA, che lo sono in atto, al netto delle più o meno rassicuranti dichiarazioni pubbliche dei rispettivi leader, in cui toni di minaccia si alternano a manifestazioni di amicizia.
Certo è che vi sono notevoli similitudini nel modo con cui le due potenze hanno preparato (USA) o stanno preparando (Cina) la propria ascesa.
Si pensi alla dottrina Monroe, dal nome del presidente James Monroe che la enunciò nel 1823, con cui gli Stati Uniti rivendicarono la propria influenza su tutto il nuovo continente, eccezion fatta per le colonie europee già costitute, impegnandosi a non intromettersi nelle dispute fra le potenze europee, e fra ciascuna potenza europea e le rispettive colonie d'oltremare.
Fu, quella, una dichiarazione per l’epoca rivoluzionaria, un oltraggio alla vecchia Europa, che cancellava 300 anni di dominio europeo globale, pronunciata - elemento non secondario - da uno stato giovanissimo e del tutto privo degli strumenti per tradurla in pratica, come, ad esempio, una marina da guerra degna di nota.
Ancora nel 1890, infatti, gli USA non possedevano alcun vascello2 da guerra (anche se nei successivi quindici anni ne costruiranno ben 25, diventando la flotta più potente del continente).
Non sappiamo se Xi Jinping si sia o meno ispirato a tale dottrina, le volte in cui ha affermato che “spetta ai popoli dell’Asia gestire le reciproche relazioni”. Vero è che sin dal suo insediamento nel 2012, il nuovo timoniere ha orientato i suoi sforzi a consolidare l’egemonia cinese su tutto il sud est asiatico, in netto contrasto con la presenza USA nella regione.
È in quel quadrante, infatti, che il Dragone si gioca le sua principale partita geopolitica.
Non solo in quanto “cortile di casa”, come l’America Latina lo è per gli USA, ma anche per il suo essere un luogo indentitario, nel quale, storicamente, ha preso forma quel sistema sinocentrico, che da Pechino si irraggia verso gli stati tradizionalmente tributari della sua civiltà.
È questo, inoltre, il luogo, questa volta geografico, attraverso cui transitano i tre quarti delle merci da e per la Cina, e l’80% delle risorse energetiche, il cui controllo evidentemente costituisce per Pechino una priorità strategica.
Anche il modo con cui gli Stati Uniti favorirono la costruzione del canale di Panama trova riscontro nell’odierna politica cinese
L’idea di collegare i due oceani risaliva alla prima presenza europea nel continente. Ci avevano pensato, ma si erano arresi, sia i Francesi che gli Inglesi.
Teodore Roosevelt, sul finire del XIX secolo, legò però la sua realizzazione a ragioni di sicurezza nazionale, dato che i battelli militari della giovane nazione, per rischierarsi da una costa all’altra, dovevano percorrere oltre 14 mila miglia nautiche.
Motivo per il quale, superati i problemi progettuali, non esitò a provocare nella repubblica centro americana una insurrezione, che sostituì quello in carica con un governo favorevole alla costruzione dell’opera.
La Cina persegue oggi, seppur in forme diverse, obiettivi analoghi. Come la costruzione del canale di Kra3, tra Birmania e Tailandia, che le consentirà di accorciare le rotte marittime di 1200 km.
O il corridoio di Gwadar4, che una volta ultimato, le consentirà di bypassare l’intero subcontinente indiano, permettendo alle merci di raggiungere, via Pakistan, la regione nord occidentale dello Xinjiang.
Pechino oggi (come Washington allora) possiede una sua precipua visione strategica, e ragiona in prospettiva, con il vantaggio, rispetto al competitor americano, di non dover sottostare ai condizionamenti degli stati democratici.
Non a caso, le iniziative cinesi preoccupano ai giorni nostri Washington, almeno quanto quelle americane a Panama destarono i timori della capitali europee allora.
In entrambi i casi, si osservano, tra un nuovo attore e uno consolidato, traiettorie confliggenti, che creano condizioni di instabilità permanente, appena velate da uno strato sottile di relazioni diplomatiche formalmente accettabili.
Sono, queste traiettorie, in parte riconducibili a quelli che alcuni analisti cinesi5 considerano i principali fattori di tensione tra le due potenze.
Innanzitutto, il progressivo ridursi della distanza in campo economico e militare, che insieme al deteriorarsi nelle rispettive opinioni pubbliche di un sentimento di mutua benevolenza, rendono oltre modo difficile l’accettazione reciproca.
Vi sono poi le differenze valoriali, culturali, e l’idea che entrambi hanno della missione loro affidata, a consolidare in ambo i paesi la ferma convinzione di una propria unicità, da tradurre, soprattutto in campo internazionale, in azioni giocoforza coerenti.
Il che porta infine - ultimo aspetto - alla formulazione di agende politiche necessariamente contrastanti, che deteriorano ancora di più il già precario quadro delle relazioni.
A dispetto di quanto Xi voglia far intendere con la sua narrativa, spesso farcita con richiami all’armonia tra le nazioni e alla collaborazione tra eguali, pur nel rispetto delle reciproche differenze, quello in atto tra Cina e USA è un gioco a somma zero, che ha come posta in gioco la spartizione del capitalismo globale6 e la ridefinizione delle rispettive aree di influenza.
Un gioco all’ultimo sangue, dal cui confronto usciranno vincitori e vinti, e nuove rendite di posizione. Al quale, sono certamente riconducibili le iniziative in campo geo-economico messe in campo da Pechino a tutela dei propri interessi, nel quadro della visione strategica di cui si è fatto cenno prima, non solo quelle legate al progetto Belt and Road, che attraversa 65 paesi e dove vive il 44% della popolazione mondiale, che vale il 30% dil PIL globale, ma anche gli accordi bilaterali sottoscritti con numerosi paesi in Africa, Asia e Europa.
Si tratta di relazioni che Pechino non si stanca mai di definire come “win-win”, al cui indubbio vantaggio economico (nuovo mercato) o strategico (collegamenti, disponibilità di un porto, ecc.) si aggiungono benefici anche notevoli per i partner, che vedono in molti casi un accesso agevolato al credito, senza gli esosi condizionamenti (liberalizzazioni, privatizzazioni, riforme, ecc.), richiesti dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario.
Ne sono esempio il corridoio economico India - Pakistan con la sua rete di oleodotti, ferrovie, autostrade e centrali elettriche e il porto di Gibuti, con l’annessa ferrovia che lo collega ad Addis Abeba (in Africa, la prima trans-frontaliera elettrificata).
Interventi che, contrariamente a quello che si possa pensare, non sono legati solo alla realizzazione di infrastrutture nel paese ospitante, ma anche a politiche di più ampio respiro volte a promuovere piccole e medie imprese locali, a patto che generino futuri profitti.
Se c’è una differenza tra gli interventi cinesi per puntellare la propria egemonia, con quelli americani di oltre un secolo fa, va allora ricercata propria nella natura esclusivamente (geo) economica delle iniziative internazionali del Dragone. L’economia, d’altronde, è lo strumento con cui realizzare gli obiettivi del millennio7, e assicurare la stabilità del regime.
Tornando ora alla domanda iniziale, se vi sia pericolo di un confronto armato tra USA e Cina, la risposta è al momento un deciso no, per lo meno sino a quando Pechino non vedrà compromessa la sua “One China policy8” e non raggiungerà nel 2049 l’ultimo obiettivo del millennio, di diventare un “moderno paese socialista, prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato e armonioso”.
La Cina è in questa fase ancora una potenza in divenire, e ha la necessità di governare dall’interno la sua ascesa politica e militare.
Gli strumenti della diplomazia, e quelli riconducibili al campo economico e commerciale, le consentono oggi, da un lato di contenere l’avversario americano, erodendone poco a poco l’egemonia, e dall’altro di proseguire nel suo progetto di affermazione nazionale.
Garanzie, però, che questo accada anche in futuro non ve ne sono; soprattutto se Washington continuerà a non riconoscere a Pechino il suo “spazio vitale” a sud est. In tal caso, una situazione di “frizione”, come le tante cui assistiamo nello stretto di Taiwan, potrebbe generare effetti a catena difficilmente controllabili.
Una collisione accidentale nelle acque dell’isola ribelle, una dichiarazione unilaterale di Taipei in contrasto con la One China policy, un collasso del regime nord coreano: sono solo alcune delle ipotesi (Allison 2017) che potrebbero provocare in futuro un conflitto tra USA e Cina.
2 Destined for wars di Graham Allison. Scribe publications 2017 pag.92.
5 Una Cina “perfetta” di Michelangelo Cocco. Carocci 2020 pag.30.
6 ibidem
8https://en.wikipedia.org/wiki/One-China_policy
Foto: U.S. Navy / Ministry of National Defense of the People's Republic of China / State Council of the People’s Republic of China