Il 22 giugno del 1941 le Forze Armate del Terzo Reich diedero inizio alla cosiddetta “Operazione Barbarossa”, l'invasione in grande stile dell'Unione Sovietica. Nel corso di quella che divenne la più sanguinosa e contrastata campagna militare di tutti i tempi, i tedeschi non agirono da soli ma ottennero rilevanti aiuti da parte dei loro alleati europei.
L'Italia fu impegnata sul “Fronte Orientale” dall'estate del 1941 sino agli inizi del 1943, dapprima con l'invio del Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR), forte di circa 62.000 uomini, al comando del generale Giovanni Messe, successivamente espanso nell'Armata Italiana in Russia (ARMIR), allineante 230.000 uomini al comando del generale Italo Gariboldi.
Moltissimo si è scritto dell'epopea e della tragedia dei soldati italiani che combatterono e morirono (spesso in condizioni atroci) in quella inospitale parte del mondo. Tuttavia tra le molte pagine dedicate agli Alpini, ai reparti di cavalleria, alle unità celeri e di fanteria, poco se non nulla è stato scritto relativamente alla componente corazzata italiana impiegata laggiù. La ragione di questa “omissione” è presto apparente; tale impiego infatti è stato assolutamente minimo, se non ridicolo.
L'Italia aveva incominciato la Seconda Guerra Mondiale con la forza corazzata più piccola e meno avanzata da punto di vista tecnologico-qualitativo tra tutte le grandi potenze in guerra. Persino stati dall'importanza minore (come l'Ungheria) riuscirono a produrre mezzi dalla meccanica più affidabile di quelli italiani.
Non solo l'industria italiana non fu mai in grado di dotare il Regio Esercito di mezzi all'avanguardia, ma faticò persino a tenere il passo dal punto di vista quantitativo dato che i mezzi corazzati nostrani venivano prodotti in poche migliaia (o addirittura poche centinaia) di esemplari. Il massiccio impiego richiesto dalle necessità del Fronte Balcanico e del Fronte Nordafricano fece sì che semplicemente non fossero disponibili che “residui operativi” di scarso valore per il Fronte Orientale.
Quando il CSIR fu finalmente pronto a muovere contro l'Unione Sovietica, l'unico elemento corazzato che aveva a disposizione era costituito dal III gruppo corazzato “San Giorgio” della 3a divisione celere “Principe Amedeo Duca d'Aosta”, parte del Corpo Celere del CSIR, che allineava 61 carri leggeri (o tankette) CV-35 (anche noti con la designazione L3/35).
Le lunghe marce, il terreno accidentato e l'immensità dei territori da attraversare, si dimostrarono per i carri leggeri ed i loro carristi degli ostacoli altrettanto ostici quanto i nemici in carne ed ossa. Il peso ridotto, la corazzatura praticamente inesistente e l'armamento limitato a due mitragliatrici leggere da 8 millimetri espose ben presto i nostri a sanguinose lezioni, pur nell'ambito della vittoriosa avanzata del 1941 e della successiva resistenza invernale.
All'arrivo della primavera del 1942 i pochi CV-35 superstiti erano talmente logori da dover essere tolti dal servizio e sostituiti da mezzi nuovi. Con i rinforzi e la successiva trasformazione del CSIR in ARMIR, la sopra citata 3a divisione celere inglobò il LXVII battaglione bersaglieri, equipaggiato con due compagnie di carri leggeri L6/40 (60 carri in tutto) ed il XIII gruppo semoventi del XIV reggimento “Cavalleggeri di Alessandria”, equipaggiato con due squadroni di cannoni d'assalto Semovente L40 da 47/32.
La descrizione dei mezzi corazzati a disposizione dell'ARMIR non sarebbe però completa se non venisse citato un piccolo numero di carri T-34 sottratti ai sovietici nel corso della battaglie del 1941-1942 e rimessi in servizio, in particolare nelle file del LXII gruppo, CXX reggimento d'artiglieria. Va aggiunto però che i nostri impiegarono i T-34 sempre con estrema cautela, visto l'alto pericolo di scontri fratricidi con i serventi dei cannoni anticarro tedeschi.
Dopo un'estate ed un autunno di avanzate e di sanguinosi combattimenti difensivi lungo l'ansa del Don, le sparute formazioni corazzate italiane vennero investite in pieno dall'impeto dell'offensiva “Piccolo Saturno” (iniziata il 16 di dicembre), lanciata dai sovietici contro le forze dell'Asse sistemate a presidio lungo l'ansa del Don ed il corso meridionale del Volga, ai lati della 6a armata di Paulus impegnata nei combattimenti casa per casa a Stalingrado. Il LXVII battaglione bersaglieri venne completamente annientato nei combattimenti attorno ai villaggi di Arbuzovka e Boguchar del 21-25 dicembre. Gli elementi superstiti delle formazioni corazzate italiane vennero poi distrutti nel corso dell'offensiva Ostrogozhsk-Rossosh lanciata dai sovietici nel periodo compreso tra il 13 ed il 27 gennaio 1943 e che porto al definitivo schianto di quanto restava dell'ARMIR.
Originariamente, Mussolini e l'alto comando italiano avevano previsto un ulteriore rafforzamento dell'ARMIR per l'anno 1943 e l'invio di altre unità corazzate ma le catastrofiche sconfitte gemelle dell'ansa del Don e del Nordafrica posero fine ad ogni ulteriore velleità e l'Italia optò per il ritiro dei superstiti dell'armata tradita che, una volta tornati in patria, accusarono apertamente Mussolini ed Hitler delle loro miserie e contribuirono con il loro semplice aspetto degradato a far precipitare ulteriormente la popolarità del Duce e della “causa” della guerra.
Se paragonata ai titanici scontri tra i corazzati tedeschi e sovietici sul Fronte Orientale in tutto il periodo dal 1941 al 1945, l'impiego dei corazzati italiani nelle terre dell'Europa Orientale appare come ben poca cosa. Tuttavia esso deve essere sempre presente di fronte ai nostri occhi come esempio del pressapochismo che troppo spesso ha spinto le élite politiche e militari italiane a sacrificare in maniera scellerata i nostri uomini migliori senza che essi fossero adeguatamente equipaggiati per far fronte alla missione ad essi assegnata.
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