Benjamin Netanyahu ha dichiarato che, dopo aver debellato Hamas, Israele manterrà la sicurezza nella Striscia per un “tempo indefinito”.
Fonti ufficiali USA riportano che Joe Biden sarebbe stato molto contrariato da questa dichiarazione che considera una “fuga in avanti” israeliana. D’altronde, non è un segreto che tra l’ex vice di Obama e il fratello dell’eroe di Entebbe non ci sia mai stata grande intesa. Infatti, la dichiarazione di Netanyahu è stata fermamente rigettata dal Segretario di Stato Blinken, durante una breve sosta della sua frenetica “shuttle diplomacy” di questi giorni. “Shuttle diplomacy” durante la quale, nonostante le sue indubbie qualità personali, il segretario di Stato USA sembra incontrare più porte chiuse in faccia che accoglienze generose. Non esattamente la shuttle diplomacy che ricordiamo di Henry Kissinger. Tempi diversi e, soprattutto, una diversa percezione mondiale della solidità della superpotenza a stelle e strisce.
Ovvio che l’ipotesi di una permanenza per un “tempo indefinito” dell’IDF nella Striscia non entusiasmi neanche Antonio Gutierres, da sei anni “nominalmente” segretario generale dell’ONU. Ovvero di una Organizzazione Internazionale che negli ultimi trent’anni e soprattutto dopo il 2022 non ha perso occasione per dimostrare plasticamente la distanza siderale esistente tra le sue grandi ambizioni e le sue limitate capacità reali. Distanza di cui era, invece, divenuto consapevole e di cui aveva dolorosamente preso atto il suo predecessore negli anni ’90, Boutrous Boutros Ghali, dopo alcune non piacevoli esperienze in Somalia e in Bosnia. Peraltro, le dichiarazioni non proprio filo-isrealiane del segretario generale sono comprensibili, dato che Gutierres non potrebbe non tener conto del peso politico, nell’ambito dell’Assemblea Generale, sia del “mondo islamico” nel suo complesso sia del così detto “sud del mondo” (che appare sempre più critico nei confronti della superpotenza statunitense).
Non si vogliono qui dare giudizi politici sull’operato del governo Netanyahu prima del 7 ottobre, non compete a noi, bensì agli elettori israeliani che lo hanno scelto, che con il loro voto ne hanno determinato la alleanze politiche con partiti ultra ortodossi (che personalmente ritengo sarebbe stato meglio non accedessero alla “stanza dei bottoni”) e che, comunque, sempre con il loro voto possono mandarlo a casa ove lo desiderino. Privilegio di cui da 17 anni non possono godere né i palestinesi della Striscia di Gaza né quelli della Cisgiordania in relazione alle proprie inamovibili “leadership politiche” (termine che riconosco potrebbe appare eufemistico).
Personalmente, pur con grande stima per l’IDF, nutro alcune perplessità in merito alle modalità di condotta delle operazioni israeliane nella Striscia, in quanto riterrei che l’obiettivo di lungo termine e, pertanto, prioritario di Israele dovrebbe essere la demolizione agli occhi della popolazione palestinese della credibilità sia di Hamas sia di chi la manovra dall’estero (dal Qatar e dall’Iran). In un’ottica strategica, ciò potrebbe essere ancora più importante che perseguire la pur sacrosanta eliminazione fisica dei miliziani di Hamas. Si tratterebbe di perseguire una soluzione a lungo termine che richiederebbe a Israele di saper dimostrare a tutti i palestinesi, sia a Gaza sia in Cisgiordania, che Hamas non è in grado né è minimamente interessata a proteggerli o a garantire loro condizioni di vita accettabili minime.
Ciò richiede un lungo assedio, protratto nel tempo, nonostante le inevitabili pressioni politiche interne ed esterne. Tempo durante il quale la Striscia dovrebbe essere tenuta sotto continua pressione psicologica prima ancora che militare, con una campagna che abbini il ricorso a mezzi non-cinetici ad ampio spettro alternati con mezzi cinetici il più selettivi possibile. Obiettivo: fomentare il sentimento di rivolta anti-Hamas da parte degli stessi palestinesi che nel 2006 l’avevano scelta come guida e che ora devono rendersi conto di esserne divenuti ostaggi. Un tale approccio comporterebbe una campagna militare che non sarebbe né facile né breve. Oddio … quindi ne risentirebbe la campagna presidenziale USA? Certamente una possibilità che a Washington non apprezzerebbero.
Pertanto, va certamente bene l’interruzione dei rifornimenti di carburante e anche di “beni essenziali” da Israele e la Striscia (l’ONU se ne faccia una ragione) abbinata alla condotta di operazioni episodiche e possibilmente “chirurgiche” all’interno della Striscia, con estrema attenzione a limitare le “vittime civili”. Intendiamo quelle vittime che, con un termine orrendo, alcuni di coloro che oggi si richiamano al rispetto del diritto internazionale umanitario, non molti anni orsono in Afghanistan e Iraq chiamavano “collateral damages” o altri che in Cecenia non si erano neanche preoccupati di attribuire un nome a questo tipo di “vittime”.
Tutte queste limitazioni dovrebbero essere adottate sulla base di motivazioni etiche? Certamente. Peraltro, anche se si volesse lasciare da parte il fattore etico (ma Israele culturalmente non potrebbe lasciarlo da parte a differenza di molti suoi nemici) si tratta anche una questione di obiettivi che si vogliono perseguire. Quando si ha un nemico che fonda il proprio richiamo verso le masse sull’esaltazione del concetto di martirio, come fanno Hamas e altre organizzazioni terroristiche islamiste, per togliere forza alla loro innegabile capacità di attrazione occorre non consentire che i terroristi di oggi un domani possano essere considerati “martiri” caduti eroicamente contro le soverchianti “forze del male”. Inoltre, occorre limitare al massimo il numero dei loro potenziali proseliti. È abbastanza naturale che chi oggi ha avuto figli o genitori morti sotto i bombardamenti israeliani potrebbe in futuro rappresentare un bacino di reclutamento ideale per organizzazioni tipo Hamas.
Mi rendo conto che ciò richieda tempi molto lunghi, pazienza, controllo nell’uso della forza e soprattutto incondizionato supporto all’operazione da parte di un esecutivo impermeabile alle prevedibili pressioni di “fare presto”. Pressioni domestiche da parte di un’opinione pubblica profondamente ferita, che vuole la liberazione degli ostaggi e la punizione di mandanti e sicari del massacro del 7 ottobre. Ma anche pressioni esterne da parte di un Occidente sempre più pavido, che vuole chiudere gli occhi e dimenticare al più presto persino che ci sia stato il 7 ottobre. Pressioni che rendono difficile per le autorità israeliane perseguire un approccio paziente come quello descritto. Difficoltà che aumenta ulteriormente avendo una il primo ministro posto sotto accusa dai media in patria e all’estero.
Ciò premesso, una volta che Israele avesse neutralizzato (in maniera permanente o meno) la minaccia di Hamas proveniente dalla Striscia, cosa dovrebbe fare di quel territorio?
Cos’altro potrebbe oggi dichiarare un qualsiasi primo ministro israeliano, illuminato o meno, pacifista o guerrafondaio che possa essere, se non che Israele manterrà la sicurezza nella Striscia per tempo indefinito?
Chi sarebbero “oggi” i potenziali attori internazionali a cui transitare da un lato la gestione politica della striscia e dall’altro la gestione della sua sicurezza (responsabilità da transitare idealmente alla stessa autorità, ma che in linea teorica potrebbero risalire ad entità diverse)?
Incominciamo dall’amministrazione civile della Striscia (si intendono qui la fornitura dei servizi essenziali, inclusi quelli sanitari e scolastici, ma anche l’urgente avvio dell’opera di ricostruzione). Purtroppo, occorre scartare subito la soluzione geograficamente e storicamente più semplice, ovvero tornare almeno temporaneamente alla situazione pre-1967. Intendo quella di restituire la giurisdizione della Striscia all’Egitto, di cui Gaza era parte dal 1948 al 1967. Soluzione che Israele sarebbe verosimilmente disponibile a discutere essendo l’Egitto uno Stato che ha da decenni normalizzato le relazioni con Israele e che avrebbe le capacità politiche e militari di gestire tale territorio e i suoi abitanti. Peraltro, sappiamo che l’Egitto non sarebbe al momento assolutamente disponibile neanche a considerare una tale ipotesi.
Consideriamo irrealistico e comunque non accettabile da parte di Israele una responsabilità attribuita alla Lega Araba o a singoli paesi Arabi diversi dall’Egitto.
L’ONU? L’ONU ha gestito alcune funzioni amministrative civili sia in Kosovo sia in Iraq, ma lo ha fatto in entrambi i casi con forze militari consistenti che garantivano la cornice di sicurezza (l’operazione NATO KFOR in Kosovo e la coalizione di volenterosi a guida USA “Iraqi Freedom” in Iraq). Qui non sarebbe ipotizzabile una simile presenza militare “occidentale” e visto come la situazione è degenerata non sarebbe neanche ipotizzabile che l’ONU riesca a mettere in piedi una forza militare e di polizia che possa essere credibile nell’assolvere tale missione: non si tratterebbe solo di interposizione ma anche e soprattutto di mantenimento dell’ordine pubblico, attività di intelligence e anti-terrorismo per prevenire il ritorno di organizzazioni tipo Hamas nella Striscia. Siamo realistici: non è cosa per l’ONU! Comunque, e a ragione, Israele non riterrebbe una forza militare ONU idonea per assolvere tale funzione.
Da Washington si prospetta l’opzione di attribuire tale responsabilità all’Autorità Nazionale Palestinese di Fatah. Ovvero a quelli che di fatto nel 2006 sono stati scacciati dalla Striscia dal voto popolare e hanno consentito ad Hamas di prendere il potere, senza mai essere in grado di scalfirne l’autorità. Gli stessi che da allora non hanno più indetto elezioni se non a livello amministrativo locale perché le avrebbero perse a favore di Hamas. Se quanto viene riportato è vero, gli USA intenderebbe tirare fuori dalla naftalina Abu Mazen, considerato da alcuni palestinesi un debole, da altri un succube di Israele, da altri ancora un corrotto, e considerato da moltissimi altri tutte e tre le cose insieme.
D’altronde gli ultimi ventidue anni, ovvero dall’11 settembre 2001 ad oggi, ci hanno fornito numerosi esempi dell’acume statunitense nel trovare leader politici di indiscutibile carisma e autorevolezza per sostituire quelli abbattuti nella “global war on terror” o nell’esportazione della democrazia (per referenze chiedere in Afghanistan, Iraq o Libia). In questo caso l’amministrazione Biden dà la spiacevole impressione di essere più preoccupata di chiudere questa ennesima grana prima delle presidenziali USA che non del futuro degli Israeliani che vivono a portata di razzo da Gaza
Come farebbe Israele a fidarsi?
Certamente, ritengo che a Gerusalemme siano perfettamente coscienti dei rischi connessi con la permanenza di una lunga presenza militare israeliana nella Striscia dopo la fine dell’operazione militare in atto. Ritengo anche che i generali israeliani siano gli ultimi ad augurarsi una simile opzione. Peraltro, operazione durante, con gli ostaggi ancora in mano ai terroristi, i soldati israeliani che cadono in combattimento e i terroristi di Hamas ancora al sicuro nei loro bunker, quando si vede ventilare un’opzione Abu Mazen, che sarebbe solo il paravento dietro il quale potrebbe risorgere Hamas, cos’altro poteva dichiarare qualsiasi primo ministro israeliano se non che Israele “manterrà la sicurezza nella Striscia per tempo indefinito”?
Foto: IDF