L'unica porzione di confine tra i due paesi non caduto nelle mani dello Stato Islamico è quella a nord-est della Siria, protetta dalla milizia curda YPG. Soltanto nell’ultima settimana, i terroristi hanno conquistato il capoluogo della provincia di Ramadi ed ottenuto il pieno controllo della città di Palmira. Il passo di Al-Tanuf è a 150 miglia da Palmyra.
Ad oggi, lo Stato islamico controlla il 50% della Siria e vaste aree dell'Iraq (un terzo del paese). Cellule ISIL sono attive in Libia e Yemen e tra poche settimane potrebbero acquisire capacità offensiva, considerando le linee di rifornimento stabilite. E mente l’Occidente si crogiola, convinto di essere al riparo geograficamente dai terroristi dell’Isis (non confondiamo la capacità di compiere un attentato con quella di un’invasione anfibia), lo Stato islamico sta compiendo un vero e proprio massacro in Iraq e Siria.
Quelle truppe regolari irachene, dotate del miglior equipaggiamento che i petroldollari potessero comprare, sono formate da soldati incapaci e per nulla motivati. Per fare un buon soldato servono mesi e mesi di addestramento ed indottrinamento, non di certo poche settimane e tanta propaganda.
La nuova forza regolare irachena, appare ormai evidente, senza l’Occidente, è un supermarket per i terroristi che, ad ogni vittoria, acquisiscono quell’equipaggiamento sensibile che, altrimenti, non potrebbero possedere. E francamente, sembrano esternazioni che non tengono conto della realtà quelle proferite, poche ore fa, dal generale Martin Dempsey, presidente del Joint Chiefs of Staff, a Bruxelles.
Secondo Dempsey, che chiaramente continua a difendere la linea della Casa Bianca, quello che è passerà alla storia come la “Caduta di Ramadi”, è stata una decisione tattica. Secondo l’alto ufficiale, le truppe irachene non sarebbero state massacrate durante la fuga, ma si sarebbero ritirate con ordine. Gli iracheni, ha spiegato Dempsey, si sarebbero ritirati perché nel momento dell’offensiva principale dello Stato islamico, persisteva in zona una tempesta di sabbia che ha impedito i raid aerei alleati. Con il mancato supporto dal cielo, le truppe lealiste “avrebbero” ricevuto l’ordine di ritirarsi a Habbaniyah, ad est di Ramadi.
Dempsey ha omesso di rilevare che durante quella che lui descrive come una “organizzata ritirata”, i soldati iracheni hanno abbandonato le loro attrezzature di produzione USA e che quei “ridicoli” reparti speciali addestrati (utilizzati per propaganda e parate, ma non basta coprire un volto per diventare un commando), sono stati i primi a fuggire.
Il controllo dello Stato islamico di un terzo del territorio iracheno e del 50% della Siria è l’ennesima dimostrazione che l’Occidente sta perdendo la guerra contro il califfato. Quella guerra prima definita, a torto, “una passeggiata” con quel sistema reputato perfetto (fiducia del governo, vendita di armi, training, risorse infinite), si sta trasformando in uno scontro di logoramento.
A nulla sembrano valere le lezioni che gli Stati Uniti hanno duramente appreso negli anni: senza le truppe USA sul campo, difficilmente l’Occidente ha vinto una guerra. Ma gli Stati Uniti, in Iraq, non ritorneranno. Perché fino a quando si tratta di un raid portato a termine dalle forze speciali, allora il risultato parrebbe certo. Contro di loro, poche forze al mondo potrebbero sperare di uscirne vivi. Ma la tipologia delle missioni delle forze speciali è totalmente diversa da quelle di pertinenza della truppa.
Per farla breve: i chirurghi dei reparti speciali, non possono di certo assolvere i compiti delle truppe regolari a cui, a tutti gli effetti, spetta la guerra su larga scala e la capacità di invasione. Pensare che i reparti speciali americani, canadesi ed inglesi possano vincere la guerra è pura utopia, anche per un semplice rapporto numerico.
L’Occidente, quindi, deve capire che vuol fare dell’Iraq che, a poco a poco, continua a sgretolarsi sotto le spade di quella forza interrazziale che prende il nome di Stato islamico. I soli raid aerei non serviranno (ma lo si è sempre saputo) a vincere il conflitto e la sperata strategia (mai dichiarata, ma è un pensiero dello scrivente), di far entrare in battaglia il mondo arabo contro l’Isis non sembra aver sortito gli effetti sperati, considerando anche la simpatia che in certi ambienti suscita il Califfo. L’Egitto, per esempio, continua a fortificare i confini.
L’unica vera missione contro la Libia (proposta dagli egiziani per arginare le postazioni Isis) è stata stoppata dagli americani che temono “un’invasione controllata”. Gli Stati Uniti difendono il governo lealista libico che, però, esiste solo sulla carta e che controlla solo piccole porzioni del paese. Altre nazioni della Regione non hanno un vero e proprio esercito e questi, comunque, dipenderebbero sempre dagli appaltatori americani che sembrano pronti a vendere qualsiasi cosa pur di fare profitto. Numerose dinamiche e variabili da considerare, certamente, ma questa strategia non funziona. E non si può chiedere agli Stati Uniti di difendere la nostra libertà con il loro sangue. Lo hanno già fatto.
Ritornando all’Isis. Considerando l’attuale “passo” dei terroristi e le forze coinvolte, potrebbero essere necessari dai tre ai cinque anni per vincere la guerra, ma la capacità attuale dell’Isis è diversa da quella di sei mesi fa. Cosa sarà l’Isis tra sei mesi? Che numeri avrà?
La coalizione mantiene diversi vantaggi che potrebbero ancora sancire la vittoria finale, ma servirà ancora tanto sangue da mettere sulla bilancia. E quello iracheno, non basterà.
Franco Iacch