Il Reparto Speciale

(di Paolo Palumbo)
07/07/17

Il 1961 sarà ricordato come uno dei peggiori anni della storia dell’Alto Adige: nel mese di giugno, infatti, una delle regioni più belle d’Italia balzò al centro della cronaca per una serie di attacchi terroristici senza precedenti. Ogni giorno, al calar delle tenebre, le vallate venivano scosse da terribili esplosioni che gettarono nel panico l’intera popolazione. Gli obiettivi dei bombaroli erano le linee ferroviarie, i pali della luce elettrica e diverse infrastrutture simbolo dello Stato Italiano. Nella sola provincia di Bolzano furono distrutti 19 tralicci dell’energia elettrica, 37 complessivamente in tutta la regione: fu un duro colpo che cagionò il black-out in quasi tutto il territorio. I primi ad essere allertati furono i carabinieri: jeep e camionette uscirono dalle caserme a sirene spiegate, ma oramai dei terroristi non vi era più traccia.

Gli autori degli attentati dinamitardi appartenevano al BAS Befreiungsausschuss Südtirol o Comitato per la Liberazione del Tirolo: persone addestrate, abili al tiro con la carabina e tra essi militavano persino alcuni reduci del reggimento SS della polizia Bozen. Le istanze indipendentiste del BAS erano condivise da una minoranza della popolazione altoatesina maldisposta all’idea di vivere assoggettata alla legge italiana; tra di essi molti s’ispiravano alle imprese di Andreas Hofer protagonista, nell’Ottocento, di una lotta senza quartiere contro gl’invasori francesi di Napoleone. Sino a quel momento, l’atteggiamento del governo italiano era stato abbastanza tollerante, forse nella speranza di frenare le ambizioni altoatesine tramite la diplomazia e una serie di opportune concessioni.

Nella regione, oltre i già citati carabinieri, vigilavano la polizia, la guardia di finanza e numerosi alpini del 4° corpo d’armata stanziati proprio in quel settore: una forza numericamente sufficiente, ma inadeguata per un tipo di azione controterrorismo.

Quanto accadde la notte dell’11 giugno 1961 – poi ribattezzata “la notte dei fuochi” – fu l’inizio di un’escalation di violenza che condusse ad un repentino peggioramento dei rapporti tra italiani e minoranza tedesca. A Bolzano la tensione era palpabile, mentre nelle vallate – meta abituale di numerosi turisti – gli alberghi iniziarono a svuotarsi causando gravi ripercussioni economiche.

Trascorsi alcuni anni tra indagini e accertamenti, i terroristi furono finalmente assicurati alla giustizia e per loro, nel 1963, si aprirono le porte del tribunale di Milano: dopo un lungo e difficile processo, la sentenza deluse le aspettative dell’opinione pubblica, poiché le pene comminate furono giudicate troppo blande. Il governo Fanfani – con Mario Scelba agli Interni – fece pressione affinché i giudici non usassero la mano pesante, nella speranza di ottenere un discreto margine di trattativa con i ribelli. I terroristi, sordi a qualsiasi messaggio di mediazione, intrapresero una nuova e più violenta campagna contro i rappresentanti dello Stato. Nel 1964, l’assassinio del carabiniere Vittorio Trialongo riaprì – in modo ancor più drammatico – l’offensiva del BAS, ma questa volta il governo reagì con forza e determinazione.

Le Forze dell’Ordine, in coordinamento con l’esercito, adottarono misure di sicurezza più severe con arresti e interrogatori al limite della legalità: era necessario sconfiggere i terroristi minando il contesto sociale nel quale vivevano. La stretta legale imposta da Roma arroventò ulteriormente l’animo dei separatisti i quali inaugurarono un nuovo biennio di terrore: tra il 1965 e il 1966 furono presi di mira treni, caserme e vie di comunicazione. Se in città la situazione pareva sotto controllo, nelle zone montuose i terroristi erano sempre un passo avanti rispetto i militari italiani.

La guerriglia e i sabotatori

Il modus operandi del BAS seguiva i dettami della lotta clandestina: i terroristi si nascondevano in un territorio a loro favorevole, uscendo allo scoperto solo per colpire o per approvvigionarsi. Sentieri, malghe o rifugi alpini diventarono ricoveri per gli attentatori i quali, se messi alle strette, conoscevano vie di fuga sicure per oltrepassare il confine e trovare protezione in Austria.

Alpini, poliziotti, carabinieri e finanzieri non avevano l’esperienza necessaria per questo tipo di confronto: per scovare i malavitosi servivano combattenti agili, pronti ad inoltrarsi nelle strette e ripide mulattiere alpine e affrontare una guerra sporca, fatta di imboscate, tranelli e lunghi appostamenti.

Nel settembre del 1966, l’allora sottosegretario alla Difesa Francesco Cossiga, ebbe l’idea di formare un Reparto Speciale nel quale raggruppare le forze dell’ordine e l’esercito; oltre gli alpini – già sul luogo – furono mobilitati i sabotatori paracadutisti del comandante Antonio Vietri. Negli anni Sessanta, i sabotatori – di stanza a Livorno – erano ancora una piccola unità, sconosciuta ai più, le cui specifiche operative andavano oltre la prassi addestrativa della Folgore. L’iter formativo di un sabotatore era di fatto uno dei più completi dell’esercito ed oltre a saper combattere in qualsiasi ambiente geografico, aveva ampia erudizione sulle tecniche di guerriglia e anti sabotaggio.

Tra gli uomini del reparto vi era il tenente Sabotatore Aldimiro Cardillo, uno dei primi convocati dal comandante Vietri. “Nessuno di noi sapeva quale fosse la destinazione della nuova missione” – ricorda Cardillo – “Una volta giunti in aeroporto mi avvicinai al pilota dell’aereo per capire se sapeva qualcosa più di me; mi indicò allora una busta sigillata spiegandomi che aveva ordine di aprirla solamente una volta in volo. Tutti noi avevamo preparato l’equipaggiamento da montagna, ma nessuna arma ci era stata consegnata. Una volta arrivati a destinazione capimmo di essere in Trentino (a Laives)”. Non appena giunti in caserma, i “baschi amaranto” furono accolti da un ufficiale dei carabinieri il quale, ignaro di chi fossero i suoi interlocutori, li esortò a prepararsi ad una sessione addestrativa con gli elicotteri. A quel punto, il tenente Cardillo trasalì e con aria severa ricordò al carabiniere che loro erano “sabotatori, non avevano bisogno di essere addestrati e semmai sarebbero stati loro a preparare gli altri”. E in effetti così fu: l’ingresso dei sabotatori nelle pattuglie miste con le forze di polizia diede una svolta positiva alla lotta contro il BAS.

Le forze speciali dell’esercito seguivano lunghi periodi di preparazione in ambiente montano e buona parte dei ragazzi di Livorno aveva al suo attivo almeno un’ascensione sul Monte Bianco. Enrico Persi Paoli, allora giovane ufficiale, ricorda il tipo di lavoro a cui furono chiamati i suoi camerati: si trattava di lunghi pattugliamenti e appostamenti in alta montagna, quasi sempre in condizioni climatiche proibitive. Il pericolo cresceva in modo esponenziale in prossimità dei confini o nei rifugi ad alta quota dove i terroristi nascondevano armi e rifornimenti. In alcune baite i ribelli del BAS imboscavano ordigni esplosivi improvvisati: se una pattuglia avesse provato ad entrare senza le opportune cautele avrebbe certamente trovato la morte. I sabotatori, primi della classe in materia di esplosivi grazie al corso 80/B, scamparono diverse volte a queste trappole, ciò nondimeno la conformazione del terreno rendeva arduo bonificare uniformemente tutte le aree.

Cima Vallona

Dal punto di vista gerarchico gli uomini del comandante Vietri dipendevano formalmente dalle forze dell’ordine, però, sul campo, erano loro a condurre la partita. Per il battaglione – come ricorda Simone Baschiera – l’esperienza in Alto Adige fu un’occasione importante al fine di mettere in pratica gli insegnamenti appresi dai Berretti Verdi. In un ambito dissimile dal Vietnam, le forze speciali italiane seppero interpretare a perfezione quanto prescritto dalla manualistica americana, adeguando ogni situazione alla realtà: proprio questo continuo processo di aggiornamento, acquisito direttamente sul campo, faceva dei sabotatori un’arma straordinaria.

Quanto accadde nel giugno del 1967 fu una conseguenza dello zelo dimostrato dal Reparto Speciale nell’assolvere i propri doveri. Durante un pattugliamento di routine nell’area di Comelico Superiore, a Cima Vallona, alcuni alpini del battaglione Val Cismon, accompagnati da 13 finanzieri incappò in un ordigno esplosivo nascosto vicino ad un traliccio dell’alta tensione. Purtroppo ci fu una vittima, l’alpino Armando Piva, travolto dalla deflagrazione. Sebbene il settore non ricadesse nelle competenze del Reparto Speciale, il comando inviò sul posto un distaccamento guidato dal capitano dei carabinieri paracadutisti Francesco Gentile, scortato dai sabotatori sottotenente Mario Di Lecce, sergente maggiore Marcello Fagnani e sergente Olivo Dordi. Il piccolo gruppo si mosse verso il luogo dell’incidente con le opportune cautele, ma all'improvviso un nuovo violento boato squarciò il silenzio della valle. In pochi istanti i corpi di Gentile, Dordi e Di Lecce furono scaraventati in aria, mentre Marcello Fagnani veniva travolto dall’onda d’urto e ferito gravemente da schegge rocciose e altro materiale. Tutto era accaduto in un attimo: il sergente Fagnani, in grave pericolo di vita, fu trasportato con urgenza all’ospedale di San Candido dove i medici riuscirono a salvargli la vita. I suoi colleghi e amici non ebbero la stessa sorte, cadendo vittime della barbarie del BAS. Per il battaglione sabotatori era una perdita incolmabile che ferì profondamente l’animo di tutto il reparto, malgrado nello spirito di un sabotatore la morte era un fatto con cui convivere ogni giorno. L’unica reazione contemplata era continuare a fare il proprio dovere, cercando di proteggere se stessi e la popolazione da ulteriori incidenti. Il capitano dei carabinieri del Tuscania fu decorato con la medaglia d’oro al valor militare, quella d’argento toccò ai tre sabotatori. Marcello Fagnani, unico scampato, ha poi proseguito la sua carriera nel Col Moschin diventando un simbolo di eroismo e sacrificio per tutti i ragazzi del Nono.

Ogni anno, a fine giugno, l’A.N.I.E. (Associazione Nazionale Incursori Esercito) insieme al 9° reggimento si reca in pellegrinaggio sul luogo del vile attentato, celebrando una messa in ricordo dei suoi caduti alla Cappella Tamai. In quell’occasione il pluridecorato labaro degli incursori viene sorretto con orgoglio dall’alfiere, accompagnato dal presidente e da Marcello Fagnani sul cui viso traspare ancora il dolore per la perdita dei compagnia e per le ferite subite, ma nel contempo un senso di fierezza e orgoglio tipico di chi ha fatto il proprio dovere senza risparmiarsi.

(foto: web)