Unità speciale Mista’aravim (“comportarsi come un arabo”)

(di Paolo Palumbo)
05/08/17

In una stretta e polverosa viuzza di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza, un carretto trainato da un asino si faceva spazio tra la gente. Poco distante, in un chiosco protetto dal sole, cinque uomini conversavano davanti ad un bicchiere di vetro contenente del caffè. Ad un certo punto una macchina bianca svoltò, a velocità sostenuta, verso il centro dell’angusta carreggiata: l’asino con il suo padrone era d’intralcio e avrebbe potuto rallentarne la marcia.

All’interno dell’autovettura bianca sedevano cinque uomini con il volto semicoperto dalla tradizionale Kefiah bianconera. Improvvisamente, non appena raggiunto il pergolato, le portiere della macchina si spalancarono all’unisono: tre uomini, con la pistola in mano, si avventarono sul gruppo con inaudita rapidità. In pochi istanti uno dei commensali venne afferrato e trascinato con forza verso il vano posteriore della macchina; ai suoi compagni non restò che assistere, atterriti, a quanto stava accadendo. Dentro l’auto, al lato opposto del guidatore, un altro uomo osservava la scena impugnando un M4, pronto ad annichilire qualsiasi tentativo di reazione. Con la stessa velocità, l’autovettura ingranò la prima imboccando una strada secondaria, volatilizzandosi come inghiottita dalla polvere. Il giovane rapito era un terrorista di Hamas il quale stava preparandosi ad un attentato contro le città ebraiche oltreconfine.

Quanto narrato qui sopra è frutto della fantasia dello scrivente, tuttavia rispecchia, in modo abbastanza veritiero, l’azione tipo di un’unità speciale israeliana mista’aravim. Il termine significa “diventare un arabo” o “comportarsi come un arabo”; gli operatori delle mista’aravim sono quasi tutti israeliani in grado di parlare un arabo fluente, senza accento, e integrarsi nelle dense comunità palestinesi dei Territori. Si tratta di operazioni al limite della sicurezza e che non lasciano margini di errori: se un infiltrato israeliano venisse identificato il suo destino sarebbe segnato. Le formazioni di questo tipo hanno origini coeve alla nascita dello stesso stato di Israele, nel 1948.

Il Plotone arabo e l’Unità 101

Il primo reparto ad operare in modalità mista’aravim apparteneva alle Palmach (abbreviativo di Plugot Machats, compagnie di assalto o d’urto) che costituirono la culla delle forze speciali israeliane. Tra le prime sei Palmach una ricevette il nome in codice di Shachar o “Alba” più comunemente nota come “Plotone Arabo”. Nelle sue fila combattevano per lo più soldati ebrei provenienti dalla Siria, avvezzati a vivere secondo i costumi e le usanze arabe1. Nel 1948, il Shachar fu assorbito nell’Intelligence delle IDF (Israeli Defence Force) e molti ex iniziarono a svolgere servizio per il nascente Mossad e lo Shin Bet. Dopo un breve periodo di attività le unità mista’aravim rientrarono nei ranghi anche perché la guerra distrasse gli uomini migliori dell’esercito verso altri compiti.

Nel giugno del 1967 divampò la Guerra dei Sei Giorni le cui conseguenze consentirono all’esercito israeliano di occupare le alture del Golan, la penisola del Sinai, la Striscia di Gaza a ridosso del confine egiziano, e la Cisgiordania – o meglio conosciuta come West Bank – strappata ai Giordani. A quel punto lo Stato ebraico, ancora una volta vittorioso sui paesi circonvicini, si trovò circondato da una serie di focolai che ne avrebbero minato la pace per gli anni avvenire. Il settore più caldo tra i nuovi territori era la Striscia di Gaza in cui giordani ed egiziani istigavano i fedayeen palestinesi alla ribellione. Le prime vittime furono i sospetti collaborazionisti, seguiti dalla manodopera che valicava i confini per lavorare in Israele. Finché la guerriglia rimase circoscritta all’interno dei villaggi palestinesi nessuno osò intromettersi, tuttavia quando nel gennaio 1971 i fedayeen massacrarono una famiglia di ebrei in visita a Gaza, le cose cambiarono bruscamente2. Moshe Dayan, allora Ministro della Difesa, inviò sul luogo il suo uomo migliore, Ariel “Arik” Sharon, classe 1928, una leggenda tra i paracadutisti delle IDF e futuro padre della famigerata Unità 101. Nel luglio del 1953 l’allora comandante Mishal Shacham, responsabile militare della Divisione di Gerusalemme, era sulle tracce di Mustafa Samueli, terrorista residente nel villaggio di Nabi Samuil. Per eliminarlo, il comandante israeliano chiese l’intervento di una sezione di paracadutisti e del reparto di fanteria della brigata Givati, ma nessuno dei due ufficiali fu disposto ad infiltrarsi nel villaggio palestinese. All’appello rispose il 25enne Sharon che in piena notte, accompagnato da sette tra suoi amici più fidati, fece irruzione nella casa di Mustafa, ma non ebbe il successo sperato3. Al di là dei risultati, il potenziale degli uomini di Sharon fu preso in considerazione dallo Stato Maggiore israeliano il quale avallò la creazione di una piccola compagine dedicata alle infiltrazioni in campo avverso. Gli uomini di Sharon, quasi tutti militari d’esperienza, affinarono la loro preparazione soprattutto nel combattimento in spazi stretti con obiettivi ravvicinati: gli uomini erano motivati, ma nel contempo indisciplinati. Lo spirito di corpo all’interno dell’unità era molto forte, tuttavia questo favorì una serie di comportamenti ribelli non conformi alle regole della vita militare. Gli uomini di Sharon solevano oltrepassare i limiti della giustizia, come accadde durante un’operazione nel villaggio di Qibya in Samaria. A seguito dell’uccisione di una famiglia israeliana in quel settore, l’esercito inviò un distaccamento di paracadutisti e un gruppo della 101 per arrestare i colpevoli e setacciare il villaggio in cerca di armi e terroristi. Dopo una minuziosa e brutale perquisizione, i commandos israeliani – capeggiati da Shlomo Gruber – demolirono diverse abitazioni, tra cui una scuola e una stazione di polizia. Al termine della rappresaglia caddero sessantanove palestinesi tra cui donne, vecchi e bambini, con l’abbattimento indiscriminato di 42 case (foto); l’operato di Sharon attirò il biasimo delle Nazioni Unite le quali comminarono una severa condanna allo Stato ebraico.

I metodi seguiti da “Arik” non erano sempre conformi alla morale di un esercito, ciò nondimeno, nelle misure a breve termine, il suo stile duro e violento si rivelò molto efficace. Sharon – menziona Bergman – “Creò inoltre alcune squadre miste sotto copertura, formando quattro o cinque reparti composti da ebrei e da prigionieri palestinesi che avevano accettato di cooperare per denaro o altro. Queste squadre dovevano trasferirsi nel cuore delle cittadine o città loro destinate dove coloro che conoscevano l’arabo avrebbero dovuto iniziare a parlare con i locali cercando di ricavare informazioni, mentre gli altri avrebbero aspettato gli sviluppi della situazione sotto copertura4.

Negli anni Settanta, tra gli ufficiali più stimati da Sharon, c’era il capitano Meir Dagan – futura guida del Mossad – il quale ricevette il comando di una nuova unità da ricognizione il Sayeret Rimon, la prima specializzata in missioni histaaravut (sotto copertura) delle IDF. La maggior parte dei soldati israeliani del nuovo sayeret aveva una conoscenza approssimativa della lingua araba, così per ovviare al problema furono affiancati a militari drusi, beduini o palestinesi ex combattenti di Fatah. Il Rimon – che non ebbe molta vita operativa - fu disciolto nel 1972, alcuni anni primi che scoppiasse la prima Intifada.

Duvdevan e Shimshon

In un freddo giorno di dicembre del 1987, Hatem Abu Sisi, un palestinese di 17 anni, si unì ad un gruppo di coetanei per praticare un gioco molto azzardato: bersagliare di sassi i soldati israeliani. Quella mattina però la piccola gang incontrò dei militari dal grilletto facile i quali, dopo ripetute offese, aprirono il fuoco sui provocatori per allontanarli. Abu Sisi fu raggiunto da due colpi al petto: la corsa all’ospedale fu vana e il diciassettenne diventò la prima vittima di quella che tutti chiamarono la Prima Intifada. La morte del ragazzo fu il casus belli che riversò sulle strade della Striscia di Gaza migliaia di palestinesi, pronti a colpire con sassi e quant’altro le uniformi verdi delle IDF. La reazione dell’esercito israeliano fu lenta, quasi indecisa, e portò in breve tempo ad un peggioramento della situazione: errori di valutazione e paura di reagire con troppa violenza determinarono un’escalation della rivolta che lasciò il segno su intere generazioni di palestinesi. Appena un anno prima dell’Intifada, l’esercito israeliano escogitò sistemi più efficaci per infiltrarsi tra i fedayeen così da individuarne i capi e conoscere in anticipo i loro obiettivi. A tal fine nacque il Duvdevan (letteralmente “ciliege”) al quale fu assegnato il controllo della Cisgiordania. Il capitano dei paracadutisti Uri Bar-Lev scelse bene i suoi uomini, badando soprattutto alle loro capacità di mascheramento e dissimulazione. Se osservato da un estraneo, l’equipaggiamento al seguito del Duvdevan somigliava più ad un carrozzone usato da attori, che non duri soldati. Se una missione richiedeva la presenza di donne, non era un problema: trucco e mestiere avrebbero sopperito alla mancanza di figure femminili. Le prime quattro unità schierate in Cisgiordania contavano ciascuna un comandante, due ufficiali medici, due team leader, due sniper e alcuni operatori. Secondo la gerarchia militare il Duvdevan dipendeva dallo Stato Maggiore dell’esercito il quale lo impiegava in azioni dirette “mordi e fuggi”, ma soprattutto per raccogliere informazioni. La Prima Intifada fu il banco di prova per gli uomini di Bar-Lev intenzionato a bloccare le scorribande di uno dei gruppi terroristi più pericolosi: le Pantere Nere, veri e propri criminali che militavano per Fatah. Nei primi quattro anni di servizio nella West Bank il Duvdevan eliminò 75 terroristi seguendo metodi inusuali, che non mancarono di sollevare proteste da parte dell’Autorità Palestinese5. Il modus operandi degli israeliani mirava a portare scompiglio tra le fila dei fedayeen cogliendoli di sorpresa quando meno se l’aspettavano.

Le incursioni nella Striscia di Gaza, notoriamente un ginepraio per le IDF, furono delegate alla gemella del Duvdevan, lo Sayeret Shimshon (Sansone in ebraico) il quale trasse i suoi componenti dai sottufficiali di altre unità speciali. Le notizie inerenti l’attività operativa dello Shimshon sono molto scarse e del resto la sua presenza sul campo fu solo per un periodo limitato. Nel 1996, dopo gli Accordi di Oslo, la compagine israeliana fu smantellata e gli appartenenti furono redistribuiti tra il Duvdevan e il Sayeret Egoz.

Ya’mas

Per lo Shin Bet una delle mosse vincenti per contrastare l’insurrezione palestinese era acquisire continue informazioni dai locali così da escogitare un piano di prevenzione, individuare gli elementi più pericolosi e colpirli non appena possibile. Tra le forze di polizia più impegnate nella sorveglianza dei Territori vi era il Mishmar Ha’Gavul (MAGAV), o polizia di confine, dal quale il comandante generale Yitzhak “Jack” Dadon creò lo Yechidat Mista’aravim o meglio conosciuto con l’acronimo Ya’mas. La Border Police schiarava già una sezione speciale, lo Ya’ma’m (Yechida Mishtartit Meyuchedet) creato nel 1974 dopo la sciagura di Ma’alot (foto) dove, durante un intervento controterrorismo, morirono 20 innocenti. Dallo Ya’ma’m proveniva Eli Avram, neo comandante della nuova unità Mista’aravim al quale fu affidata la sorveglianza della Cisgiordania. Il primo corso per istruire i nuovi agenti iniziò il 20 maggio 1990, dopo una valutazione delle richieste molto rigorosa. Una delle particolarità del reparto erano i candidati i quali – oltre agli ebrei israeliani – provenivano dalle minoranze druse, arabo cristiane, circasse e beduine6. La scelta di includere etnie differenti rispondeva al bisogno di schierare uomini perfettamente integrati nelle comunità palestinesi, scongiurando così lunghi periodi di addestramento. Samuel M. Katz riporta alcune interessanti dichiarazioni sul modus operandi di un agente dello Yam’as: “The name of the game in undercover work was to assimilate into the surroundings. Not to attract attention. Not to stand out”. Gli agenti drusi o piuttosto arabi cristiani venivano così selezionati per interpretare il difficile ruolo dello “Speaker” (in ebraico Ha’Dovrim) vale a dire l’avanscoperta di un nucleo operativo. Lo Speaker doveva agire con circospezione nelle vicinanze di un possibile bersaglio, dialogare con i membri della comunità, facendo molta attenzione a quanto gli accadeva intorno. Nelle vicinanze, pronto ad ogni evenienza, restava occultato il resto del gruppo. Ad oggi, l’iter formativo per un candidato comprende sei mesi di addestramento nel MAGAV per assimilare le varie tecniche di polizia, comprese le pratiche forensi, successivamente altri due mesi trascorrono all’interno dell’unità e quattro alla LOTAR (LoHama Ba Terror), la scuola anti terrorismo. Nello Ya’mas le capacità intellettuali e di problem solving sono importanti quanto sapere maneggiare una Glock.

Malgrado l’accuratezza nella preparazione, la puntigliosa raccolta di informazioni e le capacità del gruppo, ogni azione nei Territori racchiude, infatti, rischi molto alti, soprattutto a causa dell’imprevedibile reazione della popolazione. Quanto tutto fila liscio un sospettato può essere prelevato nel giro di pochi minuti, viceversa la situazione può diventare rovente in un istante. È importante ricordare come lo Yam’as presti molta attenzione alle regole e a non causare vittime inutili tra i civili estranei, ciò nondimeno nelle azioni contro i terroristi risulta spesso arduo distinguere chi sia l’avversario.

Samuel Katz spiega come gli elementi dello Yam’as siano persone molto particolari, lontani dal profilo “tipo” di un ufficiale delle IDF. Gli agenti non provengono dalle scuole superiori come molti nell’esercito: “They were street fighters and survivalist who were courageous beyond questions”7.

L’efficacia delle unità mista’aravim

Gli obiettivi principali delle unità sotto copertura, ed in particolare dello Yam’as, riguardano la raccolta di informazioni, la prevenzione degli attacchi terroristici ed in particolare degli attentati suicidi. I team dello Yam’as, come quelli del Duvdevan lavorano a stretto contatto con lo Shin Bet preposto al coordinamento delle forze su probabili target nascosti all’interno dei Territori. Uno dei casi più noti ed esemplificativo delle difficoltà che possono incontrare le missioni histaaravut, è stata la caccia al terrorista di Hamas Mahmoud Abu Hanoud, mandante di numerosi attentati suicidi a Gerusalemme.

Il 26 agosto del 2000 lo Shin Bet diede inizio all’operazione Symphony of Life che coinvolse unità del Duvdevan, paracadutisti, tiratori scelti e i cinofili dell’Okez (K9). In quell’occasione tre sottufficiali del Duvdevan rimasero tragicamente uccisi dal fuoco amico: uno scontro a fuoco in pieno centro abitato rappresentava un rischio molto elevato. Non esistevano segni distintivi, tutto era molto confuso e benché Abu Hanoud fu ferito ad una spalla, riuscì ugualmente a fuggire dileguandosi tra le anguste vie del paese. La morte di tre soldati di appena 18 anni scatenò un’ondata di polemiche sui pericoli connessi a tali incursioni, tuttavia prima della malaugurata azione di Asira ash-Shamaliya il Duvdevan aveva al suo attivo più di 200 successi in operazioni simili. Il dibattito si concentrò soprattutto sulla presunta legalità di queste uccisioni e sulla tattica del “Targeted Killing”. Il Mossad, il G.S.S. (General Security Service) o lo Shin Bet prediligono definirle “Punizioni Extragiudiziali” o ancora “Obiettivi selezionati” per distogliere l’attenzione dalla definizione di “assassinio politico” affibbiata dai detrattori di tale pratica8.

Gli interventi di unità come il Duvdevan o lo Yam’as non sono casuali e nascono da una scrupolosa valutazione dei dati messi a disposizione dall’intelligence e da una localizzazione quasi sempre sicura dell’obiettivo. Una volta localizzato, il terrorista può essere ucciso se reagisce, ma anche imprigionato qualora decida di arrendersi. È dunque legittimo inviare nei Territori militari in abito civile per catturare o assassinare terroristi o è una palese violazione della legge internazionale? I pareri sono discordanti ed ognuno adduce alle proprie ragioni; sta di fatto che l’impiego di agenti sotto copertura rappresenta una soluzione valida solo per il medio breve termine, ma certamente non è un deterrente efficace contro il terrorismo in genere. Diversamente le unità sotto copertura hanno ottenuto brillanti risultanti contro il reclutamento e l’invio di shahid (martiri) nelle città israeliane e i dati parlano chiaro: nel 2002 gli attacchi suicidi perpetrati da Hamas furono 121, mentre nel 2006 diminuirono a 5 di cui solo due avvennero all’interno del territorio israeliano9.

 

1 Samuel M. Katz, The Ghost Warriors. Inside Israel’s Undercover War against Sucide Terrorism, New York, 2016, p. 11.

2 Ahron Bergman, La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei Territori occupati, Torino, 2017, p. 62.

3 Ami Pedahzur, The Israeli Intelligence and the Struggle against Terrorism, CUP, 2009, p. 56.

4 Bergman, cit., pp. 63-64.

5 “Profiling Israel’s elite undercover unit Duvdevan”, MEMO – Middle East Monitor, October 12, 2015, URL: https://www.middleeastmonitor.com/20151012-profiling-israels-elite-under...

6 La polizia di frontiera israeliana fu creata nel 1953 ed è l’unica unità israeliana a reclutare nelle sue fila elementi delle minoranze etniche.

7 Samuel Katz, cit., p. 107.

8 Gal Luft, The Logic of Israel’s Targeted Killing, in “Middle East Quarterly”, Winter 2003, pp. 3, URL: http://www.meforum.org/515/the-logic-of-israels-targeted-killing

9 Pedahzur, cit., p.111. L’autore sottolinea l’importanza del sistema difensivo elaborato da Israele per combattere il terrorismo suicida: The separation fence, whose construction began in early 2002, served as a primary barrier against suicide bombers and their dispatchers. Israel Police and the Border Police deployed to the west of the fence served as the second circle of defense or Israel’s population centers. Security guards posted on buses and trains, outside public buildings and even at shopping centers and resturants, were the final circle of defense”.

(foto: web)