02/07/2015 - L'alba del 2 Luglio 1993 non aveva ancora niente da raccontare, era un giorno come tanti nella tormentata terra somala.
Il tramonto di quel 2 Luglio, invece, urlava dolore, sgomento e paura.
A distanza di 23 anni dai fatti del Check-point Pasta la Somalia è ancora uno di quei paesi dove non si vive ma si sopravvive.
Un paese che evolve, si aggiorna ma è ancora straordinariamente legato ad un passato fatto di cattive abitudini e false speranze.
Invece di essere guidata dai signori della guerra oggi la Somalia è logorata dal terrorismo islamico che ha edificato su quelle vecchie diatribe intestine un potere immenso.
Oggi, come vent'anni fa, gli italiani sono al fianco dei somali, a testimonianza di come la violenza non può intaccare la volontà di cambiamento.
Poco prima che il sole facesse capolino all'orizzonte, i soldati italiani inquadrati nella missione internazionale IBIS erano pronti ad una nuova giornata.
L'operazione "Canguro 11" iniziò circa alle 4 del mattino, le forze italiane divise in due colonne meccanizzate (Alfa e Bravo) avevano il compito di effettuare un rastrellamento volto a ripulire il quartiere di Uahara Ade. Zona nota come Check-point “Pasta”.
Lo scopo di tale operazione era quello di sequestrare armi e munizioni ai soggetti che continuavano ad usare la violenza come mezzo per ottenere ciò che pensavano fosse loro di diritto.
L'uso delle armi - nel contesto di guerra civile - impediva il corretto svolgimento del lavoro dei nostri soldati e delle ONG. Si assaltavano i container pieni di aiuti umanitari, medicine e vestiti, rimpolpando le file di un mercato nero immenso e proficuo.
Intorno al Check-point confluivano il corso XXI Ottobre e la Strada Imperiale che porta verso Balad, due arterie di comunicazione fondamentali per il paese.
I due raggruppamenti Alfa e Bravo avevano il compito di isolare il lato destro e sinistro dell'area dove si svolgeva l'operazione. Gli Incursori del IX° Col Moschin, appoggiati dai Carabinieri del Tuscania e dai parà della V compagnia del 183° Nembo, dovevano portavano a termine il rastrellamento.
In riserva rimasero otto carri pesanti M-60 della brigata Ariete e alcune blindo Centauro.
Per la terza dimensione furono impiegati elicotteri Ab 205 che solcavano il cielo insieme ai Mangusta A-129 d'assalto. A bordo delle macchine gli ufficiali avevano il compito - in caso di necessità - di coordinare le azioni di fuoco e segnalare i pericoli per gli uomini a terra.
Anche se con un dispiegamento di forze decisamente minore, operazioni come quella del 2 luglio erano quasi quotidiane. Canguro 11 non doveva essere diversa.
Considerato che il quartiere compreso tra "Pasta" e "Ferro" risultava fortemente influenzato dalla presenza degli uomini del generale Aidid quella italiana non fu solo un'operazione di rastrellamento. Il comando nazionale aveva volutamente schierato un numero di forze maggiori rispetto alla norma per puntare proprio sull'effetto dissuasivo, ci fu quello che venne definito uno "show the force".
In altre occasioni, mostrare quanto il contingente italiano e quello di altri paesi fosse imponente aveva ridotto gli attacchi contro i soldati e aveva decisamente migliorato i rapporti con la popolazione.
Il generale Bruno Loi fu un comandante lungimirante sotto molti punti di vista. Ricoprì con straordinaria capacità strategico militare un ruolo di comandate che prima di allora non era mai stato ricoperto da nessuno. Ogni aspetto delle sue operazioni era calcolato affinché da ognuna si traesse il massimo vantaggio strategico, l'attenzione al comportamento dei suoi uomini e al loro atteggiamento verso la popolazione fece del contingente italiano il più rispettato in assoluto.
Il rastrellamento portò alla luce diversi depositi di armi e alcuni somali furono arrestati per essere sottoposti ad interrogatori. Le procedure furono seguite alla lettera, nessuno fino a quel momento aveva avuto necessità di sparare un solo colpo dalla sua arma, nessuno pensava che presto "Pasta" sarebbe diventata la loro prima volta.
I primi disordini iniziarono attorno alle 07:30 AM nella zona del gruppo “Alfa” che stava ripiegando sul Check-point "Ferro". L'aria fu resa irrespirabile dai copertoni bruciati, quasi dal nulla vennero issate le barricate intorno ai soldati italiani.
Nessuno reagì, rimasero tutti attoniti ma pensarono che tutto come le altre volte sarebbe andato per il verso giusto.
Quando il contingente sentì il primo colpo d'arma sembrava tutto irreale. Fu uno shock, ma con le prime schegge di granata gli italiani avevano capito che la Somalia iniziava a chiedere il suo tributo di sangue.
Come da tradizione militare somala si schierarono dinnanzi ai nostri mezzi donne e bambini. Inveirono, sputarono, insultarono non in somalo, ma in italiano. Non troppo timidamente spuntarono i primi Ak-47 e gli Rpg. Subito dopo i cecchini cominciano il loro sistematico lavoro contro gli italiani.
Passato lo shock iniziale, ora bisognava rispondere al fuoco evitando gli innocenti.
Per il gruppo “Bravo” la situazione non fu certo migliore. Il sottotenente dei Lancieri di Montebello, Andrea Millevoi si sporse dalla torretta del suo Centauro per seguire l’evolversi della situazione; una pallottola lo colpì alla testa, uccidendolo sul colpo.
Vista l'evolversi della situazione furono fatti confluire i primi carri M60; tuttavia i carristi non furono autorizzati a far uso del proprio armamento pesante.
Tre Vcc proseguirono a poca distanza uno d’altro, quando furono investiti da un feroce fuoco di armi automatiche. Il primo cingolato riesce a rispondere al fuoco con le armi di bordo. Per il secondo blindato la sorte è diversa. I miliziani dotati di un lanciarazzi Rpg-7 fanno fuoco sul mezzo, incuranti delle vite che si muovono al suo interno.
Sul mezzo, fra gli altri, Pasquale Baccaro, parà del 187°, venne colpito a morte dal dardo infuocato mentre azionava la sua arma di bordo.
All'interno del VCC è l’inferno: il sergente maggiore Giampiero Monti ha l’addome squarciato, il paracadutista Massimiliano Zaniolo la mano devastata. Gli uomini del resto della colonna si schierano a raggiera per difendere i feriti e dar tempo ai soccorsi di arrivare. Il sottotenente Gianfranco Paglia coordina l’azione, mentre il Vcc più avanzato, allo scoperto, copre i soldati a terra al centro dell’incrocio stradale.
L'incubo di ogni soldato è di diventare preda del proprio nemico, pare che in Somalia gli incubi si avverino.
Le ambulanze e i soccorsi sono bloccati dal fitto fuoco avversario e dalle barricate. L'intero quartiere è in rivolta.
Ignorando le regole d'ingaggio uno dei capo-carro rispose ad una serie di colpi selvaggi con otto colpi da 105 mm.
Nessuno avrebbe voluto sparare, ma in ballo vi erano vite umane che nulla aveva fatto se non credere in una Somalia a cui non credevano nemmeno più i somali.
Il comando italiano, dopo essersi ripreso dallo sgomento dell’imboscata, ordina un contrattacco che viene condotto dagli “specialisti” del Col Moschin e del Tuscania.
La reazione somala è inaspettatamente violenta. Si svilupperà un durissimo scontro casa per casa, durante l’assalto il sergente maggiore degli incursori Stefano Paolicchi fu colpito a morte.
Alla fine dell’azione “Pasta” rimane in mano ai somali.
Il comando italiano, rimanendo fedele ai suoi valori non usa armi pesanti sulla popolazione civile che funge da scudo ai veri guerriglieri. Ci si ritira.
Un buon lavoro di comando si vede proprio da quanto si è disposti a perdere nell'immediato per conquistare di più nel futuro.
Al Check-point Pasta rischiammo di perdere non solo altri uomini, ma anche l'onore che ci aveva accompagnati in quei quattro mesi di missione.
Quel 2 luglio non c'erano solo soldati professionisti, come i Carabinieri Paracadutisti del Tuscania o come gli Incursori Paracadutisti del nono "Col Moschin", c'erano anche tanti soldati di leva, come i Paracadutisti del 186esimo Reggimento e quelli del quinto Reggimento Lancieri di Montebello. Tutti loro, professionisti e non, reagirono con compostezza, dominarono la paura, agirono da soldati nel senso più alto del termine.
Avrebbero tanto voluto, tutti, ripagare con il sangue il sangue ma da soldati e da italiani, hanno dimostrato come viene prima il bene della missione e poi tutto il resto.
Il Check-point fu ripreso dagli italiani qualche settimana dopo la tragedia, il generale Loi ancora una volta aveva usato prima la testa e poi le armi.
Gli italiani lasciarono sul campo, oltre ai tre caduti, 22 feriti, alcuni dei quali molto gravi.
Il rumore dei C-130 che riportarono a casa le salme de nostri connazionali fecero tacere le polemiche solo per qualche istante, ma non importava. Quel giorno sconvolse la vita di molte persone, cambiò la storia e al contempo la scrisse.
Il tramonto del 2 Luglio 1993 non lascia dubbi sul fatto che l'alba in Somalia può essere tremendamente ingannevole.
Denise Serangelo
Andrea Millevoi, sottotenente del Reggimento Lancieri di Montebello, Medaglia d'oro al valor militare (MOVM) alla memoria;
Stefano Paolicchi, sergente maggiore del 9º Reggimento d'assalto paracadutisti "Col Moschin", Medaglia d'oro al valor militare (MOVM) alla memoria;
Pasquale Baccaro caporale di leva al 186º Reggimento paracadutisti "Folgore", Medaglia d'oro al valor militare (MOVM) alla memoria.
L'attentato lascia paralizzato l'allora sottotenente Gianfranco Paglia, paracadutista, che durante l'azione fu colpito da tre pallottole mentre cercava di portare in salvo l'equipaggio sotto fuoco nemico. Gli è stata conferita la medaglia d'oro al valor militare.
Vengono insigniti della medaglia d'oro al valor militare anche il sergente maggiore paracadutista Francesco Trivani; il caporale Ottavio Bratta ed il sergente Incursore Giancarlo Cataldo Tricasi, successivamente decorato nel 1995 con l'onorificenza d'ordine al merito della Repubblica Italiana.