02/07/2014 - In questi giorni stavo per pubblicare i rituali comunicati riguardanti dichiarazioni lusinghiere dei comandanti italiani in Afghanistan riguardo al processo democratico in atto nel paese. Non ci sono riuscito.
Questo perché, dopo aver visitato per la prima volta l'Afghanistan nel 2011 (splendidamente ospitato dal nostro contingente ad Herat), l'anno successivo ho deciso di andare e verificare "alla vecchia maniera" ciò che accadeva e ciò che gli afghani pensavano di noi.
La premessa del mio viaggio era che non si potesse comprendere ciò che pensa realmente una persona guardandola attraverso i vetri blindati di un Lince o mentre è circondata da soldati in "visita di cortesia".
In quel mese, trascorso a chiacchierare con chiunque potessi, ho imparato molto.
Ho scoperto che non ci sono regioni sicure: ad un chilometro dalle stazioni di polizia comandano gli "altri" e in molte aree sulla carta pacificate, dopo le 16.30 (quando diminuisce il traffico), le strade vengono filtrate da bande in cerca di governativi da eliminare o malcapitati da depredare.
Ho imparato che, mentre si faceva a gara a scrivere storie sui burqa (sono ancora diffusissimi), si è ignorato il genocidio perpetrato per oltre un secolo ai danni degli hazara, una delle principali etnie del paese, ridotta in stato di schiavitù in passato e massacrata fino al 2001 perché dai tratti orientali e composta da "infedeli" (sciiti in un paese a maggioranza sunnita). Questo mi fa anche domandare ogni anno perché nel "giorno della memoria" si debba ricordare solo alcuni quando quasi quotidianamente vengono sterminati molti altri...
Ho con dolore immenso realizzato che paragonato agli sciiti afghani il mahatma Gandhi era un violento: nell'incontrare un hazara della valle di Bamiyan, scampato con la propria famiglia al massacro del proprio villaggio da parte dei talebani 15 anni fa fuggendo di notte sulle montagne (quelli che si erano fidati delle parole concilianti dei loro carnefici erano rimasti), mi son sentito dire che dopo il 2014 l'alternativa sarebbe stata o fuggire all'estero od attendere il proprio destino. Quando ho chiesto se avrebbe imbracciato le armi per difendere la propria famiglia mi son sentito rispondere che l'uccisione di un essere umano è contraria al più elementare principio dello sciismo. Ma non erano gli iraniani i violenti sciiti?
Una questione mi ha sorpreso più di tutto. In 32 giorni ho cercato di convalidare una mia convinzione legata alle tradizioni afghane ed ai tanti libri letti: verificare se gli italiani fossero solamente alcuni tra i tanti "stranieri invasori miscredenti" presenti nel paese. Non ci sono riuscito.
Gli italiani hanno maturato una stima ed un sentimento di amicizia diffusissimo. Dagli imam delle moschee alla gente comune con cui ho parlato per giorni, la considerazione degli italiani è "particolare": non veniamo confusi con gli altri "occupanti" ed anche quando non c'è una precedente conoscenza diretta c'è stima. Ricordo un giovane poliziotto uzbeko che, seduto ad un chiosco a Mazar i-Sharif, sottolineava quanto italiani ed uzbeki fossero anche somaticamente simili. Mi tornò in mente il "una faccia una razza" del film Mediterraneo...
Sicuramente questo merito oltre che al lavoro dei nostri contingenti negli ultimi 13 anni è anche dovuto all'antico aiuto portato da organizzazioni umanitarie come Emergency.
Se dubito che la stessa Italia sia una democrazia, ho purtroppo la certezza che ancora a lungo l'Afghanistan non potrà definirsi tale, al di fuori delle cerimonie.
In prossimità del ballottaggio elettorale giungono notizie dall'Afghanistan di violenze (ce le aspettavamo) e di numerose e gravi frodi elettorali.
Il mio invito ai responsabili militari e diplomatici ancora presenti è di evitare di scrivere in anticipo comunicati rassicuranti e di tenere gli occhi ben aperti. Intervenire con fermezza e non guardare da un'altra parte perché un alleato od un potente locale dice di farlo.
Si deve - oggi, non fra una settimana - semplicemente evitare che qualcuno mandi a puttane il lavoro di tanti anni, pagato col sangue di troppi connazionali.
Andrea Cucco