14/10/2014 - Giampiero Monti, 1° maresciallo lgt paracadutista, classe ’66, arruolato a maggio 1984 presso la scuola allievi sottufficiali di Viterbo, quest’anno festeggia i suoi primi trent’anni di carriera militare. Per circa venti anni è stato nella brigata paracadutisti Folgore, per poi prestare servizio, dal 2009, presso l’ufficio militare dell’ambasciata italiana a Washington USA.
Ha partecipato a diverse missioni: “Ibis” in Somalia nel 1993, “Enduring Freedom” in Kosovo nel 1999 e nel 2001, “Decisive Endevour” in Kosovo nel 2003, “Nilo” in Sudan nel 2005. Attualmente è in missione EUTM Somalia a Mogadiscio. È un pluridecorato, tra cui ricordiamo la medaglia argento al valor militare e la medaglia d’oro quale vittima del terrorismo (per i fatti d’armi del 2 luglio 1993 Check Point PASTA in Mogadiscio).
Maresciallo, la sua è stata una carriera intensa, cosa l’ha spinta ad entrare nel mondo militare e cosa l’ha spinta a restarci?
Nella mia famiglia sono stato il settimo di dieci figli, sin dall’età di 10 anni ho cominciato a tenere in ordine il mio letto, il mio piccolo spazio all’interno dell’armadio condiviso con i fratelli e sorelle. Ho sempre rispettato le regole. Quando sono arrivato all’età di 16 anni, durante le scuole superiori, all’interno della scuola vidi un manifesto, dove c’era scritto “Arruolati volontario alla scuola allievi sottufficiali”. Sentii subito un’emozione incontrollabile, il mio battito cardiaco accelerò, mi dissi questa sarebbe stata la mia strada. Tornai a casa e ne parlai immediatamente con i miei genitori, che rimasero sbalorditi della mia scelta, in quanto nella mia famiglia nessuno si è mai avvicinato alle FF.AA. compresi i nonni. Arruolato a 17 anni, giorno dopo giorno cresceva in me la passione per la divisa, questo mondo è il mio mondo. Disciplina, regole, rispetto, Onore, fratellanza e Lealtà sono i codici del mio DNA. Dopo essere stato ferito in Somalia, mi offrirono la riforma, ovviamente non accettai, per me sarebbe stato come morire.
Tutti conoscono ciò che accadde durante la battaglia del Check Point Pasta a Mogadiscio nel 1993, pochi forse sanno quali sono state le emozioni vissute in quel momento, fatta eccezione di chi le ha vissute. Le va di descriverle?
Quel giorno, per noi si ruppe un incantesimo, eravamo li per aiutare non per invadere. Da mesi portavamo aiuti umanitari, abbiamo costruito scuole, uffici e abbiamo ricevuto il ben servito. Quel giorno per quanto mi riguarda, ho raggiunto l'apice dell'essere soldato, in una frazione di secondo ho dovuto decidere se sparare o gettare l'arma, ho deciso di combattere perché sono un soldato, a offesa ugual difesa e io mi sono difeso. Non si possono descrivere alcune sensazioni perché sono cosi forti ed invasive che non le riesci a controllare.
Vi si immagina come dei Rambo sempre pronti all’azione - e così deve essere in ambito operativo - ma immagino abbiate anche un lato umano, con gioie e tristezze come tutti. Come riesce a conciliare entrambi gli aspetti, o uno esclude l’altro?
Essere un soldato vuol dire sacrificare la propria vita incondizionatamente per la Patria. Sappiamo di dover poter mettere a rischio la nostra vita, e sottostiamo a delle regole che spesso potrebbero apparire “eccessive”, ma le rispettiamo, tutti noi amiamo mostrare con orgoglio il nostro tricolore fuori dal territorio italiano, siamo orgogliosi di essere italiani.
Svolgiamo nella nostra quotidianità attività addestrative perché dobbiamo essere sempre pronti ad un’eventuale chiamata, oggi le Forze Armate dispongono di mezzi e strumenti altamente tecnologici e essere addestrati è il minimo che possiamo fare.
Regole e disciplina, cosa significano per lei? Tutti potrebbero esserci portati o è uno stile di vita solo per alcuni privilegiati?
Regole e disciplina sono alla base del rispetto, innanzitutto per sé stessi. Non tutti sono portati al rispetto delle regole ma, come la vita insegna, chi non rispetta, innanzitutto non viene rispettato e non esiste mai lieto fine per costoro.
Potrebbe essere di giovamento per i giovani il ripristino del servizio di leva? Molte sono ora le caserme che vengono dismesse, gli arruolamenti sono solo volontari, come potrebbe essere reinserito?
Molte caserme sono dismesse non perché abbiamo sospeso la leva, ma perché, come sappiamo, negli anni ‘90 con la fine della Guerra Fredda l’esigenza si è ridimensionata. Nella mia esperienza professionale ho avuto modo di lavorare con la leva, con il sistema misto ed ora con quello professionale. Vi sono dei vantaggi e degli svantaggi in tutte le formule. Certo, con l’aver sospeso la leva, abbiamo tolto la possibilità a generazioni di giovani di conoscere un mondo diverso da quello cui erano abituati, privandoli di una importante esperienza lontano da casa. È grave vedere dei giovani senza ideali, spesso egoisti, totalmente disinteressati al bene comune, attenti solo a tecnologie del tipo play station, cellulari ed altro, mi piace, invece, ascoltare i nostri padri come ricordano con ansia i bellissimi tempi del servizio di leva.
Maresciallo Monti, lei è un pluridecorato. Se la ricorda la sua sensazione quando ha ricevuto la sua prima medaglia, il suo primo riconoscimento? Cosa vuol dire ricevere una medaglia?
Un motivo di orgoglio, fierezza ma nello stesso tempo un peso, rappresentare un’alta decorazione come la mia vuol dire mostrarsi sempre impeccabile, dare l’esempio, essere in ogni momento un punto di riferimento per i più giovani e, perché no anche per gli anziani, non può che essere motivo di orgoglio.
Viviamo un periodo storico in cui i valori si sono affievoliti, c'è confusione, il concetto di Patria pare sia diventata astrazione - a meno che non si parli di calcio - diventa sempre più difficile riconoscersi in qualcosa e avere un ideale. Cosa ne pensa?
Anche a tal proposito, con il servizio di leva, si provava a trasmettere dei valori, quegli stessi valori con i quali i nostri padri resero l‘Italia una nazione.
Trent’anni di appartenenza non sono pochi, si potrebbe considerare un secondo matrimonio ben riuscito. Ha mai avuto ripensamenti? Tornasse indietro farebbe qualcosa di diverso?
Nessun ripensamento, ne farei altri trenta al fine di trasmettere quei Valori di cui stiamo parlando.
Rifarei tutto, non farei niente di diverso perché ciò che ho fatto mi viene riconosciuto nel giusto.
C'è un aneddoto della sua carriera a cui è affezionato e le piacerebbe condividere?
Il 20 febbraio 1986 il mio primo lancio su CH47, gasatissimo per il primo lancio, appena 18 anni, condividevo i momenti con i miei fratelli di corso, tutta la mattinata a Tassignano (Lucca) a scherzare e raccontare l’emozione tra noi. In particolare c’era un leccese (futuro bersagliere che doveva fare solo tre lanci per abilitazione), a cui ero molto affezionato, diceva che non vedeva l’ora e prendeva in giro chi titubava. Saliti sul CH47, ero il terzo della fila, appena seduti guardavo con ammirazione, attraverso la rampa aperta dell’elicottero, il suolo che si allontanava, dopo circa tre minuti “ritti” mi alzai, il “leccese” davanti a me si gira e mi fa l’occhiolino. 500 metri di quota, ci fanno agganciare la fune di vincolo, passano i secondi ed io non vedo l’ora di saltare, danno il via, il primo va via, il secondo (il leccese) non si muove, gli urlo “aoooooo movete” ma niente, era con lo sguardo nel vuoto, proprio lui che sfotteva gli altri, altri due tre secondi ed il lancio veniva annullato, cominciai a spingerlo in avanti fino a farlo giungere dal DL (direttore di lancio) che gli da una pacca alla gamba sinistra, in quel momento si riprende e salta, e io subito dopo di lui.
Alla riconsegna del paracadute mi si avvicina e mi dice grazie “senza il tuo aiuto non sarei saltato”, gli rispondo “ora però ti metti davanti a tutti e cominci a pompare cantando… non son degno di Te”.
Monica Palermo