(Racconto di vita militare)
Lo leggi per giorni sui libri, ti spiegano che lo scontro tattico determina l’esito operativo e che quindi da li si innesca la strategia vincente, ma ci devi andare per capire veramente cosa vuol dire, devi percorrere quei sentieri con il fiato corto, il capo chino e le mani a terra, allora puoi percepire lontanamente l’essenza della tragedia e dell’eroismo combinati assieme dalla pazienza e dalla dedizione di un popolo contadino abituato ad aspettare che passi il lungo inverno per raccogliere i frutti della nuova estate.
L’inverno della Grande Guerra per gli italiani durò tre interminabili anni, quelli che sopravvissero partirono ragazzi e tornarono vecchi, chi rimase tra quei fossi, in quelle valli è stato seppellito nei ricordi di una madre, di una amata di un bambino senza padre.
Ho provato a percorrerlo un pezzo di quella strada che porta dal ponte di San Quirino a nord-est di Cividale verso il monte Piatto, sul Colovrat, alla mia destra Tolmino e le acque azzurre dell’Isonzo, a Sinistra in una stretta Gola tra il Matajur e il massiccio del Tricorno Caporetto, un nome che rievoca sconfitta ed ignominia, un nome che riporta in vita i fantasmi di cento anni fa.
Dal rifugio Solarie risalendo verso est si raggiunge il monte piatto, i sentire di oggi ripercorrono le trincee di ieri, luoghi angusti e fangosi il cui l’umido gocciolare della pietra carsica gela le membra anche in una mattina di luglio.
Ho voluto provare a stare seduto li dentro, in quegli avamposti ad un tiro di schioppo dal nemico, senza il timore di essere battuto con il fuoco delle armi, ma con la consapevolezza di essere colpito dai proiettili della memoria: “chissà se ci è morto qualcuno in questa trincea, chissà chi ha toccato questo caposaldo, chi ci ha pianto e urlato, chi silenziosamente si è congedato dal conflitto e quindi dalla vita!”
Domande senza risposta tra il cinguettio dei passeri ed il ronzare delle mosche, ma alzando lo sguardo la cupa coltre boscosa del monte Cucco e l’imponenza del monte Nero mi danno un senso di soffocamento, mi sembra di sentire i fischi di cannoni e bombarde che in quelle giornate di ottobre, disposti a poco più di quattro metri l’uno dalle altre, battevano i fanti italiani privi di mezzi morali, senza controbatteria, senza riserve.
Avevano cominciato la XII spallata sull’Isonzo, ogni brigata in due anni aveva perduto mediamente oltre 3000 uomini, erano esausti, bagnati, sporchi, terrorizzati, “Vincere o Morire” nel bollettino del comando supremo, morirono e poi cercarono rifugio nelle retrovie, giunsero in migliaia su tre sbocchi stretti e lunghi circondati dai fiumi e dalla disperazione, con il tuono del cannone che incessante li inseguiva, morirono!
Ho ripercorso la loro strada privo della loro croce, ho salito parte del loro golgota senza aver sofferto le immani torture del fronte, vestendo l’uniforme congiungo a loro quale fratello in armi, percorrendo i loro passi un po’ mi sento figlio ingrato.