(Racconto di vita militare: di un ufficiale degli alpini)
Sono un alpino, sono tornato a casa, sono riuscito a tornare a casa, dopo i giorni al fronte sul Don.
Abbiamo saputo poi che noi “dovevamo” rimanere in linea perché altri reparti si stavano ritirando e dovevamo assicurare la copertura di quella manovra.
Poi l'ordine, la ritirata, i giorni più lunghi, interminabili e ancora, ancora adesso, non mi rendo conto, dopo l'uscita dalla sacca, di quell'ultimo periodo passato in attesa di essere caricato sulla tradotta.
Quei turbinosi giorni erano trascorsi faticosamente per la stanchezza accumulata, per il dolore di ritrovarsi soli, senza i tanti compagni lasciati nella neve. Ora, sul treno che ci riportava a casa, eravamo in pochi, ancora tutti interi e, con noi, i feriti dell’ultima battaglia.
E adesso sono qui, sono di nuovo in famiglia.
Non mi rendo ancora conto, oggi, di tutto quel succedersi di eventi, eppure sono già passati mesi dal mio ritorno. L'unica cosa che sento e di cui sono sicuro è che solo grazie alla mia famiglia sono riuscito a sconfiggere il nemico peggiore, quello invisibile, quella guerra che mi era rimasta dentro.
Non mi hanno lasciato solo; mi hanno circondato di affetto, più o meno palese, mi hanno scosso con parole forti, forse talvolta offensive per farmi reagire, quando quel dolore e quella solitudine che mi premevano da dentro, sembravano voler prevalere sulla vita, sulla voglia di vivere.
Non è questione di intelligenza, di cultura o meglio sì, della cultura dell'amore.
Ho capito quanto hanno fatto fatica, i miei familiari, mia moglie ed anche quel mio piccolo figlio nato quando io ero al fronte, vedendomi spesso assorto nel mio silenzio. In quei momenti mi sentivo solo anche quando ero in mezzo a tante persone che mi volevano bene. Mi sentivo solo e nessuno poteva aiutarmi, mi ero prefisso, se fossi riuscito, che io, solo io, potevo superare quelle situazioni difficili che ogni giorno, nuove, mi apparivano come incubi, di quella guerra che s'era infilata nelle mie vene, scorreva nel mio sangue inquinato da quella sofferenza.
Ricordavo che non ero andato solo al fronte. C'erano i compagni, c'erano gli altri alpini del mio plotone; eravamo più che una squadra, un gruppo solido e forte di amici, direi proprio di fratelli.
Poi, dopo la tragedia, tutti noi superstiti pensavamo di aver vinto almeno su quel destino che ci voleva vedere solo marciare e morire. Invece sarebbe iniziata un'altra lunga, dura battaglia.
La solitudine che mi assaliva nei primi giorni del ritorno ora, in alcuni giorni, si faceva meno pesante, incideva meno sul mio umore. La solitudine è quel male che ti assale quando i ricordi, la sofferenza di quei ricordi ti assale, con violenza, e tu non riesci a respingerla, non sei capace di cacciar via quelle immagini, quei lamenti, quei rantoli. Allora ti senti travolgere, ti sembra di annegare in quel mondo liquido che è la vita.
Lì ho capito che, da solo, non ce l'avrei fatta. Quando ero solo in casa, quando ero solo sull'aia e vedevo la vita intorno a me, quando camminavo nel bosco, quando mi recavo a far legna, ecco che vedevo la mia incapacità di fermare quella nuova guerra che purtroppo si rinnovava dolorosamente dentro di me.
Scappavo dalla stanza e mi facevo accogliere dalla grande cucina; lasciavo l'aia e mi rifugiavo nell’ombra del bosco, come se in quella dolce penombra potessi ritrovare i miei cari, la vecchia madre che dopo la morte di mio padre era cambiata profondamente, rivedevo l’amorevole mano di mia moglie, il sorriso contento del mio bimbo, che ogni giorno si faceva più grande e robusto.
Mia moglie mi ha anche rimproverato, con molta dolcezza, vedendo il mio male: “Scusa, ma che cosa chiedi alla vita? Dovresti essere felice di essere qui con me, con il nostro bambino, con la tua mamma. Per essere felici bisogna volerlo. Bisogna scacciare le tante cose cattive che hai vissuto e vedere soprattutto il bene che ti sta intorno”.
Già facile a dirsi, ma lei aveva ragione, lei mi era vicina, mi accudiva, cercava con una discreta carezza di farmi sentire che il mondo era quello della nostra famiglia, non quello della trincea e dei lungi giorni della ritirata.
Non era sempre così, passavo momenti di sconforto a momenti di riflessione su quello che avevo vissuto. Una cosa ricordavo, ossessiva, di quei mesi invernali passati in trincea e, poi, ancora durante la marcia della ritirata: la mancanza di ombre.
Nei giorni sia dell'autunno che dell'inverno, in Russia, non c'erano ombre.
C'era un fastidioso chiarore diffuso, come non c'era differenza tra il cielo e la terra. Sembrava quasi che noi fossimo parte del paesaggio, soprattutto negli ultimi giorni, quando eravamo incrostati di neve proprio come i pochi ramoscelli dei cespugli che avevano perso ogni caratteristica di un vegetale, sembravano morti e noi stessi forse, se qualcuno ci avesse visti camminare in quelle condizioni ci avrebbe potuto considerare dei morti che camminavano. Infatti non c'erano neanche le ombre che testimoniassero che noi eravamo materialmente vivi. No, non lasciavamo ombre.
Ecco che tornato nel calore dell'amore della famiglia mi accorgo che di giorno, quando mi muovo, c'è sempre la mia ombra con me. Allora eccomi a pensare, a comprendere quanto sia bella e utile quella silenziosa presenza. L’ombra mi fa sentire vivo. Io ci sono! Quella sagoma che la luce proietta sul pavimento, sul selciato, sono io!
Ombra…, soprattutto ho ritrovato la vita all'ombra della mia famiglia. La mia famiglia è la mia vera ombra accogliente.
Mi sono recato in un campo di grano. Il sole è nascosto dietro ad una nuvola di una forma curiosa, che mi ricorda i racconti dei nonni, quand'ero bambino. Il sole è nascosto ma i suoi raggi perforano la nuvola come linee tracciate nell'aria, proprio come in chiesa, quando un raggio entra da una finestrella laterale e taglia secco il buio delle navate.
Fisso ancora la mutevole forma della nuvola appesa lassù, che sembra immobile ma, in realtà, veleggia lentamente nel vento. Quei raggi disegnano la mia ombra sul terreno ed allora vorrei mettermi a gridare, ma non lo faccio, sennò qualcuno potrebbe prendermi per pazzo. Ma sono solo felice di essere vivo! Mia moglie mi viene incontro, tiene per mano il nostro piccolo.
Ecco la mia felicità, la mia famiglia. Mi stringo a loro. Abbozziamo una corsa tenendoci per mano. Ecco, una cosa che non avevo ancora fatto. Correre e poi fermarmi, guardare i campi e, soprattutto, stringere al petto la mia donna e il nostro piccolo uomo che era stato generato durante una licenza che avevo ottenuto, e mi aveva fatto dimenticare, per pochi
giorni la stupida, continua, mattanza della guerra.
Ora ero tornato, mi sentivo rinascere ogni giorno di più e quando sono venuto fuori dal labirinto in cui ero stato costretto ad entrare, ho preso coscienza che, grazie all'amore della mia famiglia, mi ero salvato. Ora avevo nuove gambe per correre, avevo nuovi occhi per sorridere, avevo nuove mani per abbracciare.
L'ombra che testimoniava quella vita ci seguiva, ci mostrava che eravamo uniti, che eravamo vivi noi tre.
Ritrovavo la mia voce. Potevo recarmi in chiesa a ringraziare Dio per avermi dato la mia famiglia, per avermi dato una nuova vita tramite e insieme a loro.
Per anni ho esitato, evitato di raccontare questa mia storia, solo mia.
Come avrei potuto vivere nei tormenti, nei rimorsi di quello che avevo fatto e di quello che non avevo fatto, di quello che avevo subìto.
Dal giorno del mio ritorno tutte le cose, nella propria misura, riacquistarono valore, a cominciare dalle piccole cose e questo ricupero era avvenuto grazie alla mia famiglia.
Tornai con il pensiero ai primi giorni. Ricordai lo scoramento di mia madre, subito dopo il mio ritorno, il suo scuotere la testa, vedendomi pensoso e senza luce negli occhi. Ora vedo che anche lei gioisce della mia nuova vita.
Ma devo ripetere e lo farò finché avrò voce, che se sono rinato questo lo devo alla mia famiglia, a mia moglie, a mio figlio ed a mia madre.
Presi mio figlio sulle ginocchia e gli dissi: “Sai che quando tu nascevi, io ero in guerra?” e poi, dopo un breve silenzio, ripresi: “La guerra una cosa tremenda dove si uccide o si viene uccisi senza sapere il perché.” Non so perché pronunciai quelle parole. Mio figlio mi guardò come se non avesse capito, e mia moglie aggiunse che avrebbe preferito dire quelle cose quando sarebbe stato più grandicello. Lui non poteva capire che cosa fosse la guerra, la sofferenza, soprattutto quella del suo papà.
In quel momento pensai che, in realtà, anche lei stessa sapeva ben poco di quel male.
Mio figlio, infatti, alla mia domanda non aveva reagito in alcun modo. Sicuramente aveva provato turbamento, pur senza capire. Ad un tratto mi abbracciò e sentii il dolce peso del suo capo sul mio cuore. La sua testa, reclinata sul mio petto mi dava quella sicurezza che mi era mancata per tutti i mesi al fronte, dove la morte era presente in ogni ora, in ogni giorno.
Ecco la vita che riprendeva sempre più in me, grazie a lui.