(Racconto di vita militare)

Mario non ha la penna facile. Nemmeno con le parole è un campione, per la verità.
Questa storia me l’ha raccontata una sera, dopo una guardia nella C.O.P., la centrale operativa di piattaforma, il regno degli ingegneri navali.

Nel quadrato ufficiali di una potente nave da guerra, si guardano film, si consumano i pasti, a volte i normali rapporti di colleganza si rafforzano. Alcune amicizie diventano così forti da durare per sempre.
“Era bella Cinzia, era… è molto bella…“ mi fece, mentre io armeggiavo per inserire la videocassetta di “Fuga per la vittoria” nel videoregistratore.
Eravamo solo noi due. Il marinaio di servizio, con la scusa di andare a ritirare la tradizionale pizza di mezzanotte si era eclissato da almeno mezz’ora. Ritenni che forse si stesse rivolgendo a me.

“Prego?” gli risposi con un atteggiamento così formale di cui in seguito mi vergognai molto.

“Commissario – proseguì – tutti noi ci portiamo appresso la nostra vita, nei nostri bagagli, sempre troppo piccoli, sempre così essenziali. Ad ogni partenza, non appena apri il borsone per ricomporre un nuovo mosaico di canottiere, intimo, cravatte, uniformi, è come se si aprisse l’otre di Eolo. Ma Ulisse e la sua ciurma hanno patito una sola volta. Per noi, ogni missione è un viaggio in compagnia di noi stessi, del nostro passato e il nostro futuro è sempre incerto, sempre legato agli eventi, anche perché mamma Marina è particolarmente silenziosa e un po’ matrigna”.
Non so perché, ma non ne avrei fatto un uomo profondo. Ero imbarcato da pochi mesi, all’improvviso, chiamato a sostituire con immediatezza un ufficiale tanto potentemente protetto quanto fragile ed incapace ed ero stato pienamente coinvolto dalla necessità di riportare il livello di efficienza del mio Reparto in pari rispetto agli altri. Non avevo davvero avuto il tempo per approfondire amicizie o valutare i colleghi, al di là di quelle che possono essere le impressioni epidermiche: quello lì deve essere un gran lecchino, questo ha una simpatia innata, quell’altro non ride mai.
Penso che Mario incominciò il suo discorso con me solo perché eravamo entrambi liguri. Vincere l’innata riservatezza è più facile se davanti a te c’è uno dei tuoi. È un po’ come confidarsi in famiglia.

“Sai, questa è la mia prima “nave grigia” – risposi – ho fatto due anni e mezzo sul Vespucci, ma era tutto un altro ambiente. Ma questo lo sai bene. Diciamo che se sulle navi da guerra ti porti dietro i tuoi ricordi, il Vespucci ti da l’occasione di riempirti la borsa, almeno parlando di donne, ma non solo.”

“Si – rispose – il Vespucci porta gioia nei porti e riceve amore. Ma la Marina, ovunque ti trovi, ti offrirà le occasioni per provare emozioni, intense o deboli, da ricordare o da dimenticare… Io ho conosciuto Cinzia in un breve periodo a terra. Sai, ho solo dodici anni di marina, ma ne ho già 10 di imbarco. A terra ho visto solo l’accademia e l’arsenale. In quest’ultimo ho passato circa 8 mesi. Mi ero infortunato a bordo dell’Ardito, una banalità, una disattenzione, ma ho dovuto portare il gesso per un po’ e poi riabilitarmi. Piuttosto che stare a casa, dopo aver levato il gesso, ho pregato il dottore di farmi idoneo, con destinazione a terra. A Genova, senza avere niente da fare, mi sentivo davvero inutile. “

“Lo capisco. E Cinzia? – lo incalzai, come fossi un folletto curioso – È un ricordo di Genova, dell’arsenale o di un qualche viaggio?”

“Cinzia l’ho conosciuta in arsenale. Non ero impiegabile per seguire i lavori sulle navi, per via della gamba, e allora il direttore mi destinò ad un magazzino. Ebbe una bella pensata…. mi diede l’incarico, avendo visto che avevo frequentato, prima del servizio militare, un corso di programmazione, di censire le parti di ricambio che si trovavano in quel magazzino, cercando di ricostruire una situazione un po’ scabrosa. Diciamo che dentro quel magazzino, che conservava materiali di ingente valore, la voglia di lavorare era molto rarefatta.”

“Si, ma Cinzia?”

“Belin, Commissario, sei curioso, eh!”
Mi sentii punto sul vivo. La mia permalosità mi stava facendo pensare ad una bella frase tranchant come “scusa, vado a controllare che cosa sta succedendo con la pizza”, quando il ligure, che conosce il suo simile, aggiunse…

“e hai ragione, la stavo tirando alla lunghe! Aspetta, che intanto che aspettiamo la pizza ci facciamo un gotto di birra”
Andò dietro al banco, aprì il frigo e tirò fuori due bottigliette.
Intanto io mi ero sfilato dall’angolo in cui era stato inchiavardato il videolettore. Mi avvicinai e cominciai a versarmi la birra, nel bicchiere – il solito, quello in dotazione per l’acqua, inadatto a riceverne la schiuma e a trasformarne l’odore in aroma – mentre lui apriva un pacchetto di patatine con la grazia di chi è più avvezzo a maneggiare grossi tubi di metallo piuttosto che compassi e squadrette nautiche.

“Cinzia era una delle impiegate addette alla contabilità del magazzino. Era stata arruolata una decina di anni prima e da allora era sempre stata impiegata in quell’ufficio. Ogni giorno aveva a che fare con i vari consegnatari delle navi, che andavano al magazzino a reclamare pezzi di ricambio, per sostituire quelli usurati di bordo. In linea di massima, il gran lavoro era quello di ricerca – si interruppe – Scusa, mi stavo perdendo nei particolari!”

“Ma no, feci io, mi interessa. In fondo tanto più ne so, tanto meglio è per il mio lavoro. Diciamo che, come hai detto tu prima, è come se mi aiutassi a riempire il sacco.”
Mi sorrise. Avevamo raggiunto una certa sintonia. Merito nostro, o del mare calmo al traverso. La birra, infatti, era stata appena sorseggiata, con un silenzioso cin cin, alzando il bicchiere, tra una patatina e l’altra.

Cinzia si prestava, per dovere e per altruismo, ad aiutare nelle ricerche. Nonostante fossimo già nel 1995, tutto il lavoro era gestito con grossi registri cartacei. Solo chi aveva passato una vita in quel magazzino riusciva a districarsi negli elenchi di materiali, trascritti con grande approssimazione. Spesso, dopo essere riusciti ad individuare il settore in cui i materiali potevano essere stipati, si lasciava il consegnatario nell’enorme, freddo ed umido magazzino a rovistare sugli scaffali, a cercare il pezzo mancante. Più spesso però, e più tristemente, se ne rientrava a bordo sconfitto. Il direttore dell’arsenale voleva informatizzare tutti i magazzini, ed approfittò della mia presenza, come risorsa in più, per assegnarmi il compito di censire i materiali, creando un database aggiornato che consentisse di verificare l’utilità delle scorte (c’erano ricambi di navi in disarmo da anni!), ricerche più veloci ed efficienti. In sintesi, una gestione più corretta e manageriale. Soleva dirmi, quando andavo a riferire, che i pezzi di ricambio non erano altro che soldi in altra forma e che quei soldi erano la fatica degli Italiani, a cui dovevamo rispetto, oltre che dover rendere il conto.”

“Non fa una grinza – soggiunsi – e immagino che questa Cinzia tu l’abbia arpionata nel corso del lavoro.”

“No, guarda, arpionare non è il termine esatto. Tra me e lei non c’è mai stato alcun tipo di contatto fisico. Non ti sto raccontando una storia di sesso. È una storia di intese, di sguardi…

“Spiegati meglio”.

“Io lavoravo negli uffici della direzione, al piano di sopra. Per quelli degli uffici direttivi, quelli che lavoravano al magazzino erano quelli di sotto. Viceversa, quelli di sopra eravamo noi per loro. Una replica dell’attitudine italiana a fare parrocchia. Quindi avevo poche occasioni di incontrarla; quando scendevo, era per assumere le informazioni necessarie per sviluppare il programma che avrei dovuto creare. Lei, invece, veniva su o per la toilette (ma era una evidente scusa, perché ce n’era una al piano di sotto), o per consegnare i documenti che il direttore avrebbe dovuto firmare. Ogni volta era un lampeggiare di sguardi, che se avessero potuto parlare, avrebbero detto troppo, forse tutto. In certi casi, i miei sarebbero stati vietati ai minori e forse anche i suoi!”
Sorrise. Penso che in quel momento non stesse più a bordo ma si rivedesse sulla sua scrivania, a scrutare il corridoio, sentendo passi leggeri avvicinarsi.

Un giorno qualcuno di quelli di sotto ebbe la pensata di organizzare un pranzo in una delle belle cittadine che fanno corona alla Spezia. Mi avvisarono solo al pomeriggio del giorno precedente. Signor Barabino - mi dissero – abbiamo organizzato un pranzo di gruppo per domani. Avremmo piacere di averla con noi, se anche lei ne ha piacere? Ma certo che mi fa piacere, risposi, nella certezza che anche Cinzia ci sarebbe stata. Non lo chiesi. Sarebbe stato sconveniente che quell’ufficiale così professionalmente distaccato si interessasse sfacciatamente di quella bella ragazza. D’altra parte, ci fosse stata o non, ero stato invitato, altro da fare non ne avevo e comunque fosse andata, mi sarebbe stato bene.”
“Allora? – interloquii anche perché dai suoi occhi intuivo che più che ricordare, stesse rivivendo quei momenti. Mi sembrava giusto riportarlo in questo mondo – com’è andata?”

“Hai proprio fretta, eh? Guarda, da quel momento fui preso da una strana eccitazione. Pur non sapendo se sarebbe venuta o non, io cercavo di immaginarla. Con la testa fantasticavo di averla vicina, di fare il simpatico, nonostante che buona parte di quelli di sotto non mi vedessero di buon occhio, dato che la mia efficienza metteva in risalto la loro inattitudine al lavoro e, forse, dalle mie relazioni al direttore avrebbe potuto sortire qualche rimescolamento di carte, nel mazzo dei dipendenti. Probabilmente in ciò dovevo cercare la ragione di quell’invito. Comunque, continuavo a pensare a lei, a come si sarebbe vestita, dove si sarebbe andata a sedere, dato che io, con buone possibilità, sarei stato piazzato al centro della tavolata. Se si fosse tenuta incollata a me, anche in modo discreto, per sedermisi vicino, sarebbe stato un buon segnale. Immaginavo una certa audacità, da parte mia, che sono un timido assolutamente franoso, di posarle leggermente la mano sul ginocchio, sotto il tavolo. Pensavo che, se mi avesse ripreso, avrei tirato fuori l’incredibile ma sempre valida scusa del tovagliolo caduto sotto il tavolo.
Venne il mattino e chiesi conferma del rendez-vous. Alla mezza ci incontrammo davanti all’uscita e facemmo una piccola carovana, fino a Cadimare. Prendemmo un aperitivo al bar dello stesso ristorante. Non l’avevo ancora vista, preso dalle chiacchiere con i marescialloni. C’era chi tentava di indurmi alla tolleranza, chi a scucirmi informazioni (che non avevo), chi a suggerirmi tutti i particolari necessari affinché io riuscissi a fare al meglio il loro lavoro – sorrise, contento di essere riuscito ad inserire nel racconto una simpatica battuta – finché i suoi capelli biondi non mi attrassero come la calamita con la limatura di ferro.
Era uno schianto! Aveva un vestito nero, non so come si dica tecnicamente – ecco qui l’ufficiale del genio navale che prevaricava il tenero giovanotto! – credo che fosse di raso e di tulle, insomma, un bellissimo vestito, che metteva in risalto le sue forme, giustamente ricche ma non sovrabbondanti. Che differenza rispetto all’abito di tutti i giorni! Mi piacque pensare che quel vestito fosse per me.”

“E poi? Dove si è seduta?”
Lo so che stavo interrompendo il filo di un racconto, come quando, nella proiezione dei filmini in super 8 che papà ci proiettava da bambini, il blocco della pellicola formava “la bolla”, come la chiamavamo, una microcombustione della pellicola, infiammata dalla potente luce del proiettore.

“Mi misero a sedere al centro, con molte cerimonie, come preventivato. Lei si stava andando a cercare un posto defilato, quando qualcuno dei vecchi marinai che avevo a tavola non cominciò a fare il ruffiano: Cinzia, vieni qui, vicino al signor Barabino. I giovani devono stare con i giovani.
Forse era stato studiato, forse no, sta di fatto che mentre lei si schermiva ed io facevo la faccia dell’indifferente (ma non credo di essere stato molto credibile, dopo essere diventato rosso come un pomodoro san marzano) tutti quanti si sedettero, lasciandola in piedi con il solo posto alla mia sinistra libero.
Dovette fare buon viso a cattivo gioco, mentre io non stavo nella pelle. Anche lei, però, divenne piuttosto rossastra. Buon segno, pensai.
Ti sto annoiando?”
Stava dicendo a me. Benché descrivesse un fatto privato e, forse, banale nella sua ordinarietà, era riuscito a catturare il mio interesse. Pensavo che, alla fine, niente succede per caso e che nella vita capitano cose a cui una spiegazione si riesce a dare solo molti anni dopo.

“Ma scherzi? Vai avanti, ti sarai ben accorto che sono curioso!”

Durante il pranzo cercai di evitare di parlare di lavoro. In qualche modo, parlando agli altri dei miei interessi, delle mie esperienze, cercavo di farmi conoscere meglio da lei. Mi ero preparato delle barzellette, sforzandomi, in giorno prima di ricordarle. Avevo anche telefonato agli amici per farmene raccontare alcune. Per ricordare le più carine avevo trovato delle parole chiave, che avevo legato insieme come una filastrocca, come si faceva a scuola, Il cane Battista apre la pista che riassumeva una barzelletta su due cani che si contendono un osso, un’altra, un po’ scollacciata, su di un maggiordomo un po’ troppo attento alle esigenze della padrona di casa e l’ultima sulle disavventure di uno sciatore.
Non sono capace di fare lo splendido, sono un maledetto ligure di poche parole, però mi sembrò di aver fatto la mia figura. Tra un antipasto ed un bicchiere la conversazione si faceva via via più fluida, allegra. Certo non fui capace di fare la mano morta, come mi ero ripromesso, e tutto quello che riuscii a fare fu farle cadere addosso qualche sguardo, autocensurato, perché non mi andava davvero di dividere il mio sentimento con quella allegra masnada. Ma sentivo di esserle piaciuto. Ne ero più che certo!
Tra una chiacchiera e l’altra scese la sera. Erano gli ultimi giorni d’inverno, benché la primavera avesse già cominciato ad urlare la sua gioia. Intorno alle cinque del pomeriggio, sorseggiato l’ammazzacaffè, ci preparammo per rientrare a Spezia.
Si fermò, e parve davvero contrariato. Mi feci sotto: “E il giorno dopo?”

“Mi chiamò il direttore. C’era bisogno di un esperto di macchine a vapore come me sull’Audace. Mi ordinò di presentarmi subito a bordo perché il mio predecessore aveva ottenuto dal Tribunale, con effetto immediato, le dimissioni, che la Marina gli aveva rifiutato e quindi se ne sarebbe andato subito. Risposi Comandi!, passai nell’ufficio a prendere quelle quattro cose a cui siamo affezionati e che ci portiamo sempre dietro, salutai quelli di sopra e li pregai di salutare quelli di sotto. Alle nove ero sull’Audace. Due giorni dopo partimmo per una esercitazione.
Fui molto tentato di scriverle, ma non sono molto bravo con la penna. Avrei finito per rovinare quella bella sintonia che si era creata. Le piacevo, ne ero certo! Al ritorno sarei passato di nuovo a salutare, questa volta con più calma, e le avrei chiesto il numero di telefono, l’avrei invitata fuori.”

“E…?
Feci io, con una grande voglia di sentire il lieto fine, come in tutte le belle storie.”

“Passai dal magazzino. Da quelli di sotto, questa volta, perché non stavo nella pelle, dopo due lunghi mesi.
Lei non c’era. Mi dissero, senza tanti riguardi, che si era presa qualche giorno per stare con il suo fidanzato. Una storia fresca.
Il sacco del marinaio è sempre più pesante. Tante cose entrano. Poche ne escono. Sono passati sei anni da allora. Sono ancora scapolo. Lei, non so. Ma era bella. Deve essere ancora tanto tanto bella.
Si alzò. La birra era finita da un pezzo. Posò il bicchiere sul ripiano del bar. La bottiglia volò nel bidone. Prima di uscire, si girò e….

“Grazie, Commissario. Raccontare non cancella i ricordi, ma a dividerli con un amico, diventano meno pesanti.”

Mario e Cinzia sono nomi di fantasia. Questa storia no.