21/02/2015 - L'eventuale soluzione politica del dramma chiamato Libia non ci esenterà dall'inviare in un futuro (neanche troppo remoto) delle truppe sul terreno, indifferentemente che siano allineate sul modello UNIFIL/KFOR o sul modello ISAF.
Sorge quindi un interrogativo: con quale faccia andiamo a chiedere ai nostri ragazzi di andare in Libia ad arginare una situazione di totale anarchia, che favoreggia il radicalismo islamico, pronto a tagliare teste di ogni prigioniero fatto, e quindi ben più feroce dei talebani afghani?
Con la faccia di un paese che nell'ultimo mezzo secolo ha visto buona parte della cultura denigrare ogni tipo di divisa, in particolar modo quella dell'Esercito.
Un paese che vede di buon occhio i Gino Strada che si vergonano di essere italiani, un paese che è pronto a scaricare ogni colpa sulle divise (dalle problematiche di ordine pubblico alle più becere accuse politiche), che ha snobbato ogni tentativo culturale di avvicinare il grande pubblico alle divise (penso a El Alamein, la linea del fuoco, a Torneranno i prati, ma anche alla produzione Sky Reduci), che ha sempre dipinto i nostri militari come ottusi cani da guardia del potere, assassini che meritano la condanna prima ancora del processo (non mi interessa qui discutere del caso dei fucilieri di Marina, in quanto è dominio di diritto internazionale: mi preme solo sottolineare come esso sia diventato un mero campo di propaganda politica in cui le sinistre, parlamentari e non, insieme alle classi intellettuali attigue, si sono impegnate costantemente in un processo di demonizzazione contrario ai principi del diritto italiano, in cui si è innocenti fino a prova contraria), mercenari incapaci di vivere nella vita civile, padri incompetenti e tiranni, raccomandati e quant'altro.
Certo, le nostre FF.AA. non sono esenti da problematiche e difetti, come tutto l'apparato o meglio il Sistema Paese. Ciò non toglie che buona parte dello stesso paese che fino a ieri li ha snobbati, domani chiederà ai nostri ragazzi di andare a proteggere gli interessi di ogni famiglia italiana in un posto dove cè chi non vede l'ora di tagliargli la testa o peggio, di bruciarli vivi. Si, perché checché ne dicano i Gino Strada, è bene spiegare agli italiani che l'anarchia in Libia equivale a ulteriori salassi in bolletta e una crisi economica peggiore di quella attuale. Ovviamente questa è una visione semplicistica, ma agli italiani interessa sapere solo cosa costerà loro un avvenimento estero. Agli italiani interessa sapere a causa della cultura che un'inetta classe politica ha diffuso nell'ultimo ventennio quanti aperitivi in meno a Ponte Milvio (area chic della capitale, ndr) costerà loro l'anarchia in un paese a 200 miglia marine da noi.
Per salvaguardare ben più che la pancia degli italiani, manderemo i nostri ragazzi in Libia. Non ci costerà soltanto soldi aiutare i nostri vicini mediterranei. Ci costerà vite umane. Non ci costerà solo il sacrificio e l'abnegazione di chi manderemo (numero che va moltiplicato per le turnazioni in teatro, particolare spesso omesso).. All'abnegazione e al sacrificio di questi uomini e donne si aggiungono il sacrificio e l'abnegazione delle famiglie che includono madri, mogli, figli, fratelli. Un sacrificio che il 95% degli italiani non conosce ma che conosce fin troppo bene chi nelle FF.AA. ci ha vissuto e convissuto.
Una nazione civile si vede innanzi tutto dalla capacità di sacralizzare il sacrificio di chi la rende tale ogni giorno, al di fuori sia della vuota retorica patriottarda che della demonizzazione sinistrorsa da centro sociale o da fanatici dei diritti umani.
Domani manderemo sicuramente i nostri ragazzi a morire in Libia. Perché è loro dovere, e non mancheranno di servire lo Stato come ognuno di loro ha giurato. Qualcuno dirà che vanno per soldi. Quel qualcuno però non è partito volontario giurando fedeltà. Quel qualcuno non vive nella costante consapevolezza che un proprio caro può tornare in una bara avvolta in un tricolore che assicura che il resto del paese si dimenticherà del sacrificio fatto in due giorni circa. Quel qualcuno non è andato in Namibia, in Albania, in Mozambico, ad Haiti, in Kuwait, in Kosovo e altrove a portare aiuti umanitari o a sminare campi dove saltavano in aria i civili, morendo per questo. Ma si parte comunque, attaccandosi alla propria piastrina, scacciando dalla mente l'idea che il proprio paese, spinto da una cultura sbagliata, spesso si dimenticherà del sacrificio fatto, o addirittura lo condannerà.
Domani chiederemo a migliaia di famiglie di spaccarsi per l'ennesima volta, e di vivere un'ansia che a volte a fatica si tiene fuori dalla propria quotidianità. Lo faremo nel nome della Res Publica, cioè di un bene comune. A questo bene comune, i nostri ragazzi in divisa partecipano con il sacrificio e l'abnegazione. Il 98% dei loro coetanei, partecipa bevendo aperitivi a Ponte Milvio o scrivendo 140 caratteri di disprezzo su Twitter nei confronti di quei loro coetanei che proteggono il loro diritto e la loro possibilità economica di bere aperitivi a Ponte Milvio.
La colpa di tale disprezzo non è però solo loro. È in primis di una classe politica e di una classe intellettuale che ha riversato disprezzo sulle nostre FF.AA. finché gli è tornato comodo e finché non si è accorta che comunque avevano un voto da esprimere alle elezioni.
Non possiamo esimerci dal mandare i nostri ragazzi in Libia: è un nostro dovere, è una nostra chance, è una nostra storica vocazione geopolitica.
Ma se proprio dobbiamo farlo, facciamolo con la cultura giusta. Non vedremo Scud dello Stato Islamico su Lampedusa. Questo però non toglie che il nemico è alle porte, e il tempo delle missioni di pace è finito. Ora si tratta di fare la guerra, quella vera, quella in cui chi conosciamo va a morire.
Se dobbiamo mandare i nostri ragazzi laggiù, allora dobbiamo cambiare la nostra cultura ed inviarli li con il giusto supporto: con il supporto degli italiani, con l'amore delle proprie famiglie e non ultimo con le giuste regole d'ingaggio.
Alessandro Vivaldi
(foto: Navy Seals)