27/02/2015 - Per poter dire se oggi sia effettivamente utile spendere forze economiche e umane in ordine ad un possibile attacco libico occorre procedere con un balancing process degli interessi in gioco.

Se su un piatto della bilancia abbiamo la spesa delle nostre Forze Armate, dall'altro osserviamo l'interesse libico a creare e mantenere uno stato di pace fine, tra le altre cose, a consentirci un costante godimento delle risorse energetiche oggi compromesse - primi tra tutti i pozzi petroliferi - ed un controllo delle coste che consenta una mappatura ed uno stopping del flusso continuo di soggetti rifugiati che scappano dall'avanzata del terrorismo islamico e che compromettono la nostra sicurezza quanto flussi non controllati.

Anzitutto la critica maggiore muove contro gli Stati Uniti e la loro failed policy nei confronti della guerra al terrorismo. L'attacco dell'11 settembre 2001 - un evento che segna il più rilevante fallimento dei servizi d'intelligence statunitensi dopo il disastro di Pearl Harbor - ha scoccato l'ora di inizio ad una guerra contro il terrorismo islamico che, ad oggi, non ha prodotto alcun risultato se non la morte di troppi nostri militari. Unitamente a questa politica americana che ben possiamo chiamare di "mordi e fuggi" verso l'integralismo islamico - una guerra infatti condotta spesso con lo scudo del peacekeeping che non ha consentito un'opera di smantellamento dei regimi del terrore bensì una loro fuga in altri territori con un conseguente espandersi e potenziarsi - la missione di cui la superpotenza del nuovo Continente si è sentita investita è stata quella di togliere i capi di governo degli Stati mediorientali per condurli ad un ordine democratico che da subito si è dimostrato fallito e che ha consentito un proliferare del terrorismo.

Un dato reale è che se il terrorista può definirsi tale, egli è un soggetto che muove azioni contro l'incolumità pubblica agendo sull'onda del terrore indotto ai consociati, rappresenta dunque un vizio assoluto contro i principali diritti umani primo tra tutti il poter vivere consci di una situazione di stabile e generale sicurezza. Oggi tutto ciò manca, e non solo in Libia o in altri Paesi mediorientali, bensì in tutto il mondo. Non sussistono infatti aree sicure al cento per cento, anzi, ad oggi un pericolo di attentato è esteso a tutti quegli Stati che sono posti ad ovest di quello Islamico per il solo fatto di essere occidentali, a tutti i Paesi cristiani ed a tutti quelli che intralciano il raggiungimento dell'obiettivo della conquista di Roma.

L'odierna situazione in Libia, in precedenza vista come un successo dell'intervento franco-statunitense per la donazione della democrazia, rappresenta il fallimento dell'accesso occidentale nello Stato africano oggi failed-State devastato dalle lotte intestine tra tribù e dall'avanzata dei gruppi di al-Qaeda e ISIS. L'attuale approccio seguito dalla Comunità internazionale ha preferito, all'intervento militare, la strada del negoziato di pace sotto l'egida delle Nazioni Unite, una via lunga e di improbabile efficacia, anzi questo territorio potrebbe divenire un rifugio stabile del terrorismo il che causerebbe una crisi umanitaria di ben più ampio respiro.

Le lunghe frontiere della Libia popolate da giovani disoccupati di stampo conservatore, il ritorno dei soldati applicati sul fronte siriano e iracheno nonché le molteplici armi razziate nell'era Gheddafi, si presentano come un piatto succulente per gli aspiranti jihadisti. La Libia rischia di divenire, insieme ad Iraq e Siria, la sede della guerra condotta dallo Stato Islamico. Nello Stato africano oggi si scontrano anche tra loro le fazioni fondamentaliste che non riconoscono reciprocamente la loro legittimità: ISIS, al-Qaeda e Ansar al-Sharia (il gruppo responsabile dell'attacco compiuto nel settembre 2012 a danno della struttura diplomatica statunitense a Bengasi che vide l'uccisione dell'ambasciatore J. Christopher Stevens e di altri tre americani). Questa massiccia diffusione dei gruppi terroristici in Libia è diretta conseguenza del crollo dello Stato libico, un fallimento dunque della politica franco-statunitense più che dell'intera comunità internazionale. Lo stesso presidente U.S.A. Barack Obama, durante un'intervista rilasciata al New York Times nell'agosto 2014, ha ammesso la propria responsabilità ed il fallimento degli Stati Uniti nel progetto di aiuto al programma post Gheddafi. Il Paese oggi è diviso tra due governi: quello di Tripoli, costituito dai conservatori che favoreggiano la rivoluzione, e quello di Tobruk, che rappresenta la forza moderata riconosciuta dalla maggior parte degli altri Paesi. Le forze di Tobruk hanno ad oggi riconosciuto l'aiuto di Egitto, Emirati Arabi ed Arabia Saudita nella comune guerra alla Jihad.

La Libia rappresenta dunque il fulcro attuale della battaglia contro il terrorismo islamico che dal Medio Oriente si è espanso in Africa. Gli effetti dell'avanzata dei jihadisti ha comportato un preoccupante calo della produzione del petrolio a causa dei costanti combattimenti, ed in un Paese che si basa quasi unicamente sulla commercializzazione - e dunque sui proventi - del greggio, un suo continuo calo di produzione comporterebbe un'impossibilità di pagare gli stipendi ai lavoratori e di importare i beni essenziali per la sopravvivenza dei cittadini libici presagendo una crisi ancor più devastante sul piano economico ed umanitario. Nonostante questi presagi nefasti, l'approccio internazionale è statico e non pare mutare. Nel rispetto delle leggi internazionali c'è chi eccepisce come un intervento armato in Libia dovrebbe essere autorizzato dal Consiglio di Sicurezza, ma ad avviso dello scrivente la contingente ed attuale minaccia di commettere agli Stati occidentali, specie all'Italia, dei mali ingiustificati, minaccia che spesso - come ben dimostrano i recenti attacchi terroristici e le esecuzioni di pochi giorni fa - non è rimasta tale ma si è tramutata in fatto compiuto, offre già la possibilità di agire con l'uso della forza per prevenire un pericolo che sta sempre più divenendo reale. Siamo dunque in uno stato di stretta necessità. 

Ci sono poi soggetti che eccepiscono come un intervento significherebbe l'impiego di un quantitativo significante di forze dell'aria e del mare nonché decine di migliaia di truppe, specie poi per la stabilizzazione da offrire al termine del conflitto, ma non trovo difformità con l'impegno pluriennale costatoci in Afghanistan e Iraq. A questo punto non vedo chiara la ragione per cui si sia disposto l'intervento in quei luoghi che non rappresentavano un rischio effettivo ed attuale - almeno secondo i canoni del diritto internazionale umanitario - negando oggi un'azione nei confronti di un pericolo che sì, questo, risponde effettivamente ai requisiti di attualità della minaccia del conflitto proprio del diritto internazionale dei conflitti armati per l'inherentright proprio dell'art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. Quanto meno oggi dovremmo prestare un forte supporto militare alle Forze armate libiche ed al generale Khalīfa Belqāsim Haftar (foto).

L'opzione scelta è dunque stata quella della fiducia nel futuro, ma la speranza non ha mai vinto alcuna lotta, dai bisticci domestici alle guerre più cruente. Ciò che risolve la politica è l'intervento concreto alla volontà di eliminare il pericolo, eliminare il fattore destabilizzante. Oggi si è optato per una politica di contenimento della situazione attuale auspicando che un giorno potranno concludersi dei negoziati di pace. Questi però hanno bisogno di un sostegno da parte delle potenze regionali e dalla politica, che deve dimostrarsi in grado di controllare le proprie forze sul proprio territorio, per non parlare poi della necessità della sussistenza di una volontà del compromesso. Su tutte tre le condizioni non c'è spiraglio di alcun ottimismo e nel migliore dei casi, anche se si addivenisse ad un negoziato, sarebbe comunque necessario l'invio di una forza di sicurezza delle Nazioni Unite. In altre parole l'intervento militare è in ogni caso essenziale, un'azione che deve essere sì integrata da sforzi politici e diplomatici attivi ma che non deve rimanere inattuata. La politica di hands-off attuata dagli Stati occidentali nel post Gheddafi non ha funzionato: si è eliminata una dittatura durata 42 anni per finire di male in peggio. Oggi fare una seria e concreta guerra che ha come obiettivo lo smantellamento completo del terrorismo islamico di al-Qaeda, ISIS, o altre organizzazioni jihadiste, è necessaria e fine ad assicurare il benessere di tutta la comunità internazionale.

Nicolò Giordana

(foto: US DoD / web)