18/04/2015 – ​ Sin dall’inizio degli attacchi aerei, condotti dalle forze aeree degli Stati Uniti d’America, contro le forze dell’ISIS – Islamic State Iraq & Syria – presenti sul territorio sia siriano, sia iracheno dal mese d’agosto del 2014 e, oggi, anche da parte della Giordania, dopo che l’ISIS ha ucciso un pilota delle forze aeree giordane, che ha dichiarato guerra al gruppo islamico terrorista, la liceità di tali attacchi è stata oggetto di un ampio dibattito, ancora in corso.

Gran parte della discussione si è concentrata sul fatto se l’autotutela collettiva – dell’Iraq – permette o consente l’impiego dell’azione coercitiva armata contro i c.d. attori non statali in territori stranieri, dove lo Stato territoriale, si pensi alla Siria, non sia in grado o non abbia la volontà di fermare gli attacchi stessi.

Tuttavia, la liceità degli attacchi aerei, che sono operanti sul suolo iracheno e non solo, si consideri che anche l’Egitto sta attaccando le forze jihadiste sul suolo libico, dove è presente il gruppo terroristico collegato all’ISIS, non pare aver del tutto cagionato dei contrasti dibattimentali. La presenza del consenso da parte del governo di Bagdad, riconosciuto internazionalmente, dell’uso di aerei militari di forze straniere sembra assicurare la totale liceità di azioni militari estere contro l’ISIS, secondo lo jus ad bellum, così evidente da non richiedere alcun commento. D’altronde, circa il consenso all’uso della forza, si nota che la legalità di ciò, che è stato definito intervento su invito o assistenza militare su richiesta, è stato tradizionalmente più controverso rispetto alla mera dichiarazione suggerita.

Parte della dottrina, e anche alcuni Stati, ha sostenuto che esiste un divieto o inibizione generale circa l’assistenza militare ai governi in presenza di guerre civili o conflitti interni o non internazionali o ribellioni interni. Tale aspetto era particolarmente avvertito durante la Guerra fredda e pareva rappresentare un tentativo nel limitare l’uso indiretto della forza da parte delle super potenze. La norma si dice che sia derivata dall’inibizione dell’intervento negli affari interni degli Stati, come pure dal principio di autodeterminazione. La tesi sostenuta da quelli che sono a favore della norma è che l’intervento persino con l’assenso del governo nega al popolo il diritto di governare le loro proprie questioni e di determinare la loro futura politica. In breve, su questo punto, il diritto internazionale assicura il diritto di ribellarsi contro il governo. Altri hanno espresso dei dubbi sul fatto che una norma, che vieta l’assistenza a un governo nei conflitti interni, non è mai emersa.

In questa mia analisi, cerco di porre in risalto che la recente prassi dello Stato relativo all’impiego della forza in Iraq contro l’ISIS suggerisce che l’evidenza dell’opinio juris in relazione a tale norma è oggi abbastanza fragile.

In base alla Risoluzione dell’Institute Droit International sul principio del non intervento in conflitti civili, del 1975, gli Stati terzi devono astenersi dal prestare assistenza alle parti in un conflitto interno o guerra civile che si sta combattendo nel territorio di un altro Stato. Tale risoluzione definisce una guerra civile come un conflitto armato interno fra il governo determinato o riconosciuto di uno Stato, sul piano internazionale, e uno o più movimenti insurrezionali che mirano a fare cadere il governo o l’ordine politico, sociale ed economico dello Stato, oppure per ottenere la secessione o l’autogoverno per una parte dello Stato, ovvero fra due o più gruppi che si contendono il controllo dello Stato in assenza di un determinato governo. La risoluzione riconosce delle eccezioni che consentono la fornitura di aiuti prettamente umanitari e un diritto potenziale di contro intervento, in cui l’intervento illegale è già avvenuto a favore dell’altra parte coinvolta nella guerra civile.

L’esistenza di un analogo divieto a quella presente nella Risoluzione IDI del 1975 è stata riconosciuta da gran parte degli studiosi di diritto internazionale. In un interessante pezzo che include un’attenta compilazione della prassi, è stato asserito che vi è un sostanziale dubbio se uno Stato possa validamente assistere un altro governo per reprimere una ribellione, almeno sotto forma di invio di truppe.

Qualcun altro sostiene se c’è un conflitto interno armato piuttosto che un mero disordine interno, è stato accettato che esiste un obbligo di non intervenire, persino dinanzi alla richiesta del governo, in assenza dell’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite o di organizzazioni internazionali a carattere regionale, a meno che non vi è stato anteriormente l’intervento straniero contro il governo.

Ancora, una minoranza di studiosi internazionalisti limita l’uso consentito dell’azione coercitiva armata, id est la forza, con il consenso di rispondere a ingerenze esterne o proteggere i cittadini, senza estendersi alla soluzione di lotte intestine. Inoltre, dichiarazioni degli Stati possono essere riscontrate per sostenere un punto restrittivo della liceità dell’uso consensuale della forza in situazioni di interni.

In un documento della politica estera britannica, ad esempio, reso pubblico nel 1984, si statuisce che ogni forma d’ingerenza o assistenza è inibita, tranne nei casi di genere d’umanità, quando un conflitto non internazionale (nel senso di guerra domestica o intestina) sta prendendo piede e il controllo del territorio dello Stato è diviso fra le parti in lotta, sebbene sia anche riconosciuto un’eccezione che consente un contro intervento a favore di una parte che è in conflitto in risposta al precedente intervento esterno sul lato opposto.

Tuttavia, la restrittiva visione della liceità della forza consensuale è del tutto lontana dall’essere accettata. Vi è, infatti, quella dottrina che sostiene che quello del divieto generale circa l’assistenza di tipo militare ai governi coinvolti in un conflitto interno è inconsistente con la prassi dello Stato. Da qui, si può aggiungere, facendo un esempio, che l’apparente accettazione della comunità internazionale della liceità dell’intervento militare francese a favore dell’assediato governo del Mali nel 2013, nonostante il fatto che i ribelli islamisti controllavano il nord del Paese e che sembrava raggiungere la capitale.

Sul piano del principio, l’equazione di situazioni di guerra civile con l’esercizio del diritto di autodeterminazione pare che sia problematico. Arduo è il fatto che un popolo possa riprendere le armi come strumenti per sostenere quel diritto, non si può dire che proprio per la ragione che c’è un gruppo armato, allora sia sufficiente lo strumento militare per partecipare in quello che è divenuto un conflitto interno; ciò sta a indicare che il diritto all’autodeterminazione è un corollario della capacità di una parte a usare effettivamente la violenza. L’abilità di un gruppo armato di condurre una guerra civile non significa necessariamente che esso abbia la titolarità a rappresentare un popolo nei termini accordati a quel periodo, secondo il principio d’autodeterminazione.

Nel diritto internazionale, similmente, una delle prerogative concertate al governo è la possibilità di sanzionare l’attività all’interno del territorio di un altro Stato. Non è chiaro come l’assistenza militare con il consenso non sia una violazione del divieto o inibizione d’intervento nelle questioni di domestic jurisdiction o interne di uno Stato, nel momento in cui la guerra civile non varchi la soglia. – persino non considerando la difficoltà di dire ciò che è l’attuale soglia –, ma che diviene una violazione di questo principio una volta che si è in presenza di un conflitto non internazionale.

Le continue dicotomie sul tema erano apparenti, quando l’IDI riprendeva la questione fra gli anni 2009 e 2011. Nel suo rapporto, uno dei relatori sosteneva la possibilità che la Risoluzione del 1975 non rifletteva la prassi dello Stato nel mutato ambiente politico del post Guerra fredda, sebbene alcuni membri dell’IDI non erano dello stesso parere. La Risoluzione IDI, adottata nel 2011, sulla materia circa la richiesta di assistenza militare, mentre richiamava la Risoluzione del 1975, non fece esplicitamente reiterare il suo divieto sul supporto militare ai governi dinanzi a un conflitto non internazionale o domestico. È stato, inoltre, asserito che l’assistenza militare è vietata quando è esercitata in contrasto o in violazione della Carta delle Nazioni Unite, del principio di non intervento, dell’autodeterminazione dei popoli, dell’egual diritto e generalmente di accettati standard dei diritti della persona umana e, in particolare, quando il suo oggetto è quello di sostenere un governo stabilito contro il suo popolo. L’ulteriore Risoluzione del 2011 chiarisce in maniera netta che è stata la sua applicazione unicamente destinata a situazioni di tensioni e disturbi interni, sotto la soglia del conflitto internazionale armato come, per l’appunto, enunciato nell’articolo 1 del II Protocollo Addizionale alle Convenzioni di Ginevra.

Il conflitto fra il governo iracheno e le forze dell’ISIS sembra rientrare nell’ambito dell’applicazione del divieto contenuto della Risoluzione IDI del 1975. Quando sono iniziati gli attacchi aerei, lo Stato islamico già esercitava il controllo su una porzione molto importante del territorio iracheno, consentendo di effettuare le operazioni militari prolungate e concertate e che continua tuttora a fare. Ergo, se il divieto di assistere i governi nei conflitti intestini o non internazionali unicamente si applica ai conflitti che rientrano nella definizione dell’articolo 1 del II Protocollo Addizionale, quella condizione sembrerebbe accettabile in questo caso. Il conflitto in corso sembra, dunque, pare fornire un utile banco di prova come se l’inibizione proposta nella Risoluzione dell’IDI sia parte del diritto internazionale contemporaneo, attualmente. È, pertanto, importante rilevare che gli Stati, partecipanti negli attacchi aerei, nel giustificare lecitamente le loro azioni, hanno ampiamente posto in risalto l’asserzione generale secondo cui l’azione militare sul territorio di uno Stato con l’assenso del suo governo è da considerare lecito, senza alcun riferimento al divieto di supporto militare al governo – o ai governi coinvolti – in un conflitto interno.

Le autorità statunitensi, ad esempio, hanno affermato che nel rispetto del diritto internazionale, ogni azione che viene intrapresa, ivi quelle delle forze aeree, sarebbe compatibile con il diritto internazionale, dopo che era stata fatta richiesta di assistenza militare da parte del governo iracheno. Gli stessi statunitensi sono stati chiamati e, quindi, invitati a intraprendere queste azioni dal governo di Bagdad e che è provvista di fondamenti normativi internazionali per poter intervenire militarmente. Lo stesso presidente degli Stati Uniti d’America B. Obama ha asserito, in una nota inviata al congresso, che le azioni militari in Iraq sono state adottate in concerto con le autorità irachene; come pure il governo di Londra ha affermato che il diritto internazionale è chiaro nel sostenere che l’uso della forza coercitiva armata nelle relazioni internazionali è vietato, tranne in eccezioni limitate. In aggiunta, sempre il diritto internazionale è lo stesso chiaro sul fatto che il divieto non si applica all’uso della coercizione armata da uno Stato sul territorio di un altro Stato, se lo Stato territoriale presenta la richiesta o il consenso di essere supportato. È evidente, in questo caso, che l’Iraq ha acconsentito all’uso della forza armata da parte di alcuni Stati per difendersi dall’ISIS.

È noto che questa sintesi non conteneva alcun riferimento all’inibizione circa il supporto o l’assistenza militare a un governo in un conflitto domestico, nonostante l’approvazione precedente della Gran Bretagna di tale restrizione nel documento del Foreign Office del 1984. Analogamente, la mozione veniva adottata dalla House of Commons, autorizzando la partecipazione dell’Inghilterra agli attacchi aerei in Iraq, perché faceva riferimento alla richiesta del governo iracheno di un supporto internazionale per difendersi dalla minaccia dell’ISIS che sta spargendo terrore all’interno dell’Iraq, e questa netta base lecita favorisce l’azione sul suolo iracheno.

Similmente, affermazioni da altri Stati della coalizione sulla liceità dell’impiego della forza armata con l’assenso del governo locale o territoriale sono state espresse. La Francia, a titolo di esempio, ha giustificato la sua liceità in conformità alla Carta delle Nazioni Unite, secondo cui ogni Stato, nell’esercizio della propria sovranità, può richiedere a un altro Stato di assisterlo. Anche il Canada, approvando la sua partecipazione considerata lecita agli attacchi aerei sugli obiettivi dell’ISIS ha affermato che l’autorizzazione conforme alla liceità si poggia sul fatto che il governo eletto democraticamente dal popolo iracheno ha invitato e chiesto per essere assistito e sostenuto al fine di lottare contro l’autoproclamato Stato islamico. Pertanto, non necessita dell’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Pure l’Australia ha ritenuto che operare in Iraq con l’assenso, l’approvazione e il placet delle autorità del governo di Bagdad rispetta i parametri dell’uso della forza determinati dal diritto internazionale. Della stessa opinione si è anche espresso il governo di Berlino. La generalità di queste dichiarazioni, riguardante la liceità dell’uso consensuale della forza, in assenza di ogni riferimento all’inibizione sull’assistenza unilaterale ai governi coinvolti nei conflitti non internazionali, sembra pesare contro l’esistenza di tale divieto come parte del diritto internazionale contemporaneo.

Altre interpretazioni, dunque, sono fattibili. Si potrebbe sostenere che la vera ragione sta nel fatto che gli attacchi aerei sono da considerare leciti e che la loro legalità è stata accettata da gran parte degli Stati della comunità internazionale; non è che c’è un divieto circa l’assistenza militare ai governi nei conflitti interni, ma ricadono in una delle affermate eccezioni a questa norma.

Un’eccezione apparentemente nota nella Risoluzione dell’IDI del 1975, e nettamente accettata dalla dottrina, consente l’assistenza unilaterale al governo dove le forze di opposizione nel conflitto non internazionale sono loro stessi a ricevere assistenza esterna. Si potrebbe sostenere che l’intervento contro lo Stato islamico ricade in tal ambito da quando l’ISIS non è soltanto un movimento iracheno, ma anche quel gruppo che controlla parte del territorio siriano e recluta i c.d. foreignfighters. L’Iraq ha fatto riferimento all’esistenza di un rifugio ovvero di un vero e proprio quartiere generale dell’ISIS sul suolo siriano, come fattore che necessitava di una propria richiesta d’assistenza. Nel giustificare la loro partecipazione negli attacchi aerei, i leader stranieri hanno inaspettatamente enfatizzato che l’ISIS minaccia non solo l’Iraq, ma, a causa del suo impegno a contrastare il terrorismo, anche le loro nazioni. Questo quadro dello Stato islamico come non una meramente minaccia interna, ma sia regionale che internazionale, può essere interpretato come un tentativo di portare il conflitto fuori la categoria di guerra intestina o conflitto interno, e, in tal modo, come un riconoscimento tacito, almeno non in contraddizione ad una norma generale in base al quale l’assistenza militare ai governi che si trovano in una guerra civile è bandita. Ritenendo che gli obiettivi professati dall’ISIS non si limitano a conquistare il potere iracheno, ma di realizzare di un grande califfato che cancellerà i confini dell’intera area mediorientale, la classificazione del conflitto come qualcos’altro che una puramente guerra intestina sembra plausibile.

È stato anche affermato che una maggiore eccezione al divieto dell’assistenza militare ai governi durante le guerre civili è stata discussa; tale assistenza a un governo è considerata lecita nel momento in cui uno Stato assiste un altro Stato durante un combattimento congiunto contro il terrorismo. Se una simile eccezione esiste, allora l’uso della forza contro lo Stato islamico vi rientrerebbe. Tuttavia, il problema che sorge immediatamente è che assicura la decisione secondo cui un particolare gruppo è un gruppo terroristico. Invece, i governi decisi o determinati di sovente tentano di dipingere i loro oppositori come terroristi per delegittimare politicamente e sia in grado in modo lecito di richiedere l’appoggio esterno contro i terroristi.

Un problema con il tentare di ritagliarsi queste eccezioni alla supposta norma è che le circostanze indicate da esse pare riferirsi più alle motivazioni o ragioni, per cui gli Stati forniscono assistenza militare ad altri Stati, come opposti alla giustificazione lecita dell’intervento. Ogni volta che gli Stati intraprendono l’azione, senza alcun dubbio avranno una motivazione politica per adottare tale azione e soventemente nel caso di un’azione molto seria come l’uso della forza. Sarebbe errato, pertanto, considerare che la motivazione o la ratio si ponga sullo stesso piano della giustificazione legale, come se fraintendesse l’elemento cogente dell’opiniojuris.

Mentre quegli Stati che intervengono in Iraq contro lo Stato islamico, quest’ultimo viene considerato gruppo terroristico che si pone come minaccia internazionale e che compie atrocità contro la popolazione, questi Stati hanno appositamente le ragioni giuridiche per intraprendere l’azione coercitiva armata solitamente focalizzata in termini generali e non focalizzata sulla liceità dell’impiego della forza con il pieno consenso del governo dello Stato territoriale. Ergo, le posizioni degli Stati circa gli attacchi aerei contro l’ISIS in Iraq non sembra sostenere l’esistenza di un divieto generale sull’impiego della forza armata alla richiesta del governo durante un conflitto domestico o interno.

È pur vero, d’altronde, che esiste un trend di giustificare l’assistenza militare ai governi in termini della percepita legittimità del governo di fronte ai suoi oppositori; ad esempio, se è democraticamente eletto o se sta tentando di assumersi la propria responsabilità a proteggere la propria popolazione dalle atrocità. Sebbene, in linea di massima, gli Stati sembrano aver tenuto tali fattori di liceità che si separano dalla loro circoscritta giustificazione giuridica dell’uso della forza contro l’ISIS, vi sono alcuni casi in cui questi fattori sono in modo apparente intessuti nella materia giuridica.

Giuseppe Paccione

(foto: archivio US DoD)