30/04/2015 - La primavera yemenita continua a profumare di guerra e morte.

Sotto le bombe extralusso della monarchia saudita sono morte 944 persone e un numero imprecisato di bambini.

Riyadh si presenta agli occhi del mondo come uno scolaro impreparato alla prima interrogazione.

Abbagliata dal sospetto che dietro l'avanzata degli Huthi vi fosse l'Iran, senza nessuna prova e senza un vero casus belli, la monarchia saudita ha armato i caccia e messo insieme una coalizione di dieci paesi arabi, tutti sunniti.

Dagli Emirati alla Giordania, dall'Egitto al Marocco (che ancora non capiamo quali minacce ai suoi interessi abbia visto), al Pakistan (che poi s'è ritrovato impantanato in una situazione infelice), alla Turchia, un'armata forte di 150.000 uomini, cento navi e centocinquanta aerei da combattimento ha dichiarato guerra ad una sparuta milizia.

Gli Houthi sono senza aviazione e senza contraerea, definirli addestrati è un oltraggio alla disciplina militare. Non li definirei proprio un "covo di terroristi incalliti".

Fossi stata nei panni della monarchia saudita e della sua coalizione mi sarei lanciata a capofitto su qualcosa alla mia portata, come lo Stato Islamico, realtà decisamente più preoccupante.

Ma è risaputo che in questa crisi, come quasi sempre nelle crisi mediorientali, nulla è semplice e lineare. Nulla è come sembra.

Quando si parla di Medioriente sarebbe innaturale non chiedersi dove siano o cosa facciano gli Stati Uniti. Questa volta sarebbe stato meglio per la politica stelle e strisce evitare una figura ridicola e sorvolare sulla pessima performance saudita. Invece il Segretario di Stato Kerry, è dovuto uscire dalla stanza dell'Hotel di Ginevra dove si stavano negoziando gli ultimi dettagli dell'accordo che ridimensionava il programma nucleare iraniano e, nello sbigottimento generale, ha dovuto dare il pieno appoggio alla petromonarchia.

Così per quasi un mese nello Yemen s'è combattuta una guerra feroce.

L'Occidente - tutto senza esclusioni - non si è quasi accorto di nulla. Nessuna conferenza stampa, nessun hashtag dedicato sui social, nessuna marcia ne fiaccolate.

E no, non diamo la colpa ai politici e alla crisi economica: a fregarcene siamo anche e sopratutto noi.

Gli yemeniti pare possono morire senza una ragione purché non facciano troppo rumore ai telegiornali.

Quando il numero di morti si è fatto imbarazzante e gli obbiettivi militari non erano nemmeno stati scalfiti allora qualcuno ha chiesto - con voce non troppo alta - che si smettesse di bombardare lo Yemen.

E con la stessa vergognosa incompetenza con cui la "Decisive Storm" è iniziata, si è scritta la parola fine.

Prima, però, si sono scomodate le flotte di mezzo mondo - Stati Uniti compresi - e si è invocato un blocco navale che valeva solo per l'Iran. Tutto per fermare presumibili carichi di armi diretti ai ribelli Houthi.

Per i lettori che se lo stessero domandando, nessun'altra operazione militare è stata condotta in questa maniera così sciatta e puerile.

L'operazione "Tempesta Decisiva" ha raggiunto i suoi obbietti solo perché di obbiettivi non ne esistevano dal principio.

In termini militari, l'unico aspetto che è cambiato è la credibilità degli Stati del Golfo.

Ai sauditi piacerebbe il ritorno al vecchio controllabile status che avevano conquistato duramente prima di farsi prendere la mano.

Ad aggravare la posizione saudita è l'embargo imposto allo Yemen che pesa sopratutto sulla popolazione civile. Senza cibo, elettricità e acqua corrente si sta materializzando una crisi umanitaria di difficile risoluzione.

Riyadh ha già dichiarato che si accollerà il costo totale dell'intervento umanitario diretto alla popolazione yemenita e coordinato da Unicef e Nazioni Unite. Quando i sauditi si volteranno indietro - ammesso che lo faranno - vedranno che nessuno dei problemi dello Yemen è stato risolto dal loro intervento militare, anzi.

Gli Houthi sono ancora lì, al Qaeda è ancora lì, Saleh è ancora lì, gli indipendentisti del sud sono ancora lì.

I gruppi jihadisti legati proprio ad Al Qaeda, attraverso il ramo locale dell'organizzazione chiamato Al Qaeda nella Penisola Araba (AQAP), hanno saputo approfittare della guerra conquistando più territori nel Sud, mentre Sanaa è stata scossa da un quadruplo attentato suicida compiuto da kamikaze dello Stato Islamico.

Un mese di bombardamenti è stato più che sufficiente per far capire al mondo che gli Stati Arabi non sono pronti per assumersi la loro responsabilità verso il mondo che sta loro vicino.

La Guerra non è mai una decisione da prendere a cuor leggero, le vite che animano un paese meritano di essere rispettate e non contate solo come "danni collaterali".

La Guerra diventa solo una dimostrazione di forza fine a se stessa se non ha uno scopo e una direzione.

Quanto accaduto in Yemen dovrebbe portare anche noi occidentali a riflettere.

L'intervento militare in Libia - che moltissimi si auspicano - ha le stesse basi politiche e militare dei bombardamenti in sauditi.

Senza una guida e senza uno scopo le operazioni militari di qualsiasi genere rischiano di diventare la tomba di chi la combatte.

Prendere le distanze dalla morte che provoca la sfacciataggine e l'arroganza di una politica inetta bombardando dal cielo non fermerà il terrorismo, semmai lo nutrirà di odio e determinazione.

Cerchiamo di prendere esempio da un errore che costerà all'Arabia Saudita una leadership che praticamente aveva già fatto sua e che ha miseramente perso.

La Guerra non sempre la vince chi è più forte.

Denise Serangelo

(nella foto del Dipartimento di Stato USA il presidente Obama stringe la mano a membri della famiglia reale saudita)