13/04/2015 - Ai tempi di Rocky IV, per il cinema e l’immaginario collettivo, Ivan Drago era russo. Per la Storia in realtà poteva essere ucraino, bielorusso, lituano, estone... provenire cioè da una qualunque delle 15 repubbliche dell’Unione Sovietica.
Nemmeno la somatica poteva dargli origini certe: i tratti, plausibilmente slavi o tuttalpiù baltici, non escludevano cittadinanze caucasiche o centroasiatiche vista la preponderanza della cultura russa all’interno dell’URSS. Predominio che in settanta anni aveva cambiato equilibri demografici e sociali in tutto l’impero, all’insaputa degli Occidentali e spesso degli stessi sovietici. Che Stalin fosse georgiano e non russo era l’eccezione che confermava la regola. Un po’ come per l’ex Jugoslavia, dove il croato Tito sovraintendeva ad una federazione in realtà dominata dai Serbi.
Quando nel ‘91 l’URSS si è sciolta, il processo di derussificazione nelle repubbliche ex sovietiche si è sviluppato con forme e rabbia diverse da luogo a luogo, sulla base di indicatori standard: storia e tradizioni pregresse delle repubbliche, rapporto culturale e demografico tra colonizzati e colonizzatori, torti e abusi subiti durante l’occupazione.
In alcuni casi il processo di allontanamento dalla Russia è fallito o addirittura nemmeno iniziato. È il caso della Bielorussia (de facto propaggine di Mosca) dove è abortito per affinità, dipendenze strategiche e vincoli economici. Stessa cosa in Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan e in parte nell’Uzbekistan di Karimov, dove la derussificazione (compreso l’abbandono del cirillico per un ritorno all’alfabeto latino) è stata più momentanea che sostanziale. La nascita della Comunità economica eurasiatica sulle ceneri della Comunità di Stati Indipendenti ne è in fondo la sublimazione.
Tirando di qua, tirando di là, in vent’anni il sistema di sfere d’influenze conosciuto con la Guerra Fredda si è aggiornato con passaggi tutt’altro che invisibili: decennio che vai, potere di Mosca che trovi. Se prima si parlava russo a Berlino Est, oggi si combatte per parlarlo ancora all’aeroporto di Donetsk.
Benché qualcuno neghi, è comunque una grande vittoria di Putin, la cui abilità strategica ha permesso di recuperare molto terreno perduto dai Russi con la caduta dell’URSS. Il riaccorpamento in un’ottica neozarista di molti popoli ex sudditi, ha permesso di ammorbidire il declassamento da “Armata Rossa” ad “Armata Rotta”, riportando la Russia nel consesso delle potenze mondiali.
Il ritorno ha dovuto misurarsi ovviamente con eredità storiche ineluttabili, solo congelate durante il dominio sovietico. È il caso dei Paesi baltici dove un’intera generazione di Russi si è ritrovata di fatto senza patria. È un problema di molte nazioni dell’ex impero comunista, ma che nel Baltico prende un odore particolare. Basti pensare che Lituani, Lettoni ed Estoni non sono nemmeno slavi (come ad esempio Bielorussi ed Ucraini) e che entrati obtorto collo nell’URSS, sono stati i più felici di uscirne nel ’91. Il Museo dell’occupazione sovietica nella centralissima Ratslakumus a Riga, in Lettonia, la dice lunga su baci e abbracci scambiati per decenni. Peggio ancora in Lituania, dove la Chiesa ortodossa, meno influente, non ha potuto nemmeno fare da mediatore. Poco meglio in Estonia, dove solo una maggiore presenza russa ha impedito una vera e propria rivalsa etnica.
Gli strascichi geopolitici sono visibilissimi. Prendere un bus a Klaipeda in Lituania ed entrare (con visto e passaporto) nella russa Kaliningrad serve a farsi un’idea. L’antica Konigsberg di kantiana memoria, sovietizzata da Stalin nella marcia su Berlino del ’45, è rimasta fuori dalla Storia finché la Lituania era nell’URSS e la Polonia nel Patto di Varsavia. Dal ’91 in poi è un’esclave russa, forse tra le terre più militarizzate del mondo. È quella che in linguaggio diplomatico viene definita “una bella rogna”.
Su questo perno ruotano molti eventi riletti dai media semplicemente come minchiatelle da novella Guerra Fredda.
Un Sukhoi russo che sfiora un aereo NATO riassume in sé molto più che un semplice incidente sfiorato. È la sintesi di una frizione profonda che attinge a scenari geopolitici di grossa portata.
Col superamento del riposizionamento strategico URSS-Russia e col ritorno ad un rango militare temuto su scala mondiale, la Russia ha dovuto ingoiare, seppur con enorme dolore, l’allargamento della NATO ai Paesi ex Patto di Varsavia. Non può tuttavia permettersi di metabolizzare l’ingerenza “occidentale” anche all’interno dei territori ex URSS, considerati il giardino di casa. È il motivo per cui la 58esima armata è entrata in Georgia nel 2008, la Crimea è tornata a casa ed è scoppiata la guerra nel Donbass nel 2014.
L’ingresso delle tre repubbliche baltiche nella UE e nella NATO reso possibile nel 2003-2004 da una situazione ancora fluida al Cremlino (primo mandato di Putin, crisi nel Caucaso ancora aperta), oggi probabilmente non sarebbe né facile, né indolore.
Lituania Lettonia ed Estonia, somigliano a chi riesce a fuggire da un ambiente chiuso nell’esatto momento in cui le porte si aprono. Un tempismo storico forse irripetibile.
Avere vicini così grandi non è facile. È la ragione per cui, con buona pace del sacrosanto diritto alla sovranità e all’autodeterminazione dei popoli, Ivan Drago potrebbe essere nato a Vilnius, Riga o Tallin o per cui giocatori di basket baltici hanno fatto per anni la gloria della nazionale sovietica.
Ubi maior dicevano i latini…
Forse per questo gli “incidenti” aerei sul Baltico, probabilmente sono solo agli inizi.
Giampiero Venturi
(foto: NATO e dell'autore)