07/05/2015 - In barba al politically correct, c’è un Paese che pianifica una strategia di esistenza nel lungo termine senza troppi fronzoli. Parliamo dell’Australia, per ironia della sorte la nazione più giovane tra quelle che per costumi ed etica di riferimento, definiamo occidentali.
Che sia proprio un Paese giovane a preoccuparsi dell’identità e del proprio futuro culturale e demografico, è curioso. Almeno quanto il fatto che le civiltà più anziane, quelle cioè che secondo logica dovrebbero essere più inclini all’autoconservazione, nicchiano sull’argomento, quasi che sopravvivere non sia una necessità primaria.
Se l’Australia già nel nome appare lontana, nell’indirizzo politico è lontanissima dai cliché del pensiero unico mondialista, guidato ormai per inerzia dal pilota automatico dell’umanitarismo di facciata. Così, mentre molti Stati svicolano dal naturale dovere di tutelare i propri interessi (disciplina in cui l’Italia brilla da sempre…), l’Australia se n’infischia e cosciente di essere un soggetto giuridico territoriale sovrano si fa quelli che nelle scuole di Diplomazia vengono chiamati “affari suoi”.
Contestualizziamo.
L’Australia è leggermente più grande dell’Italia (25 volte…), ma ha un terzo della sua popolazione. Quasi 900.000 Australiani sono di origine italica, ma ben lontani dai tempi di Alberto Sordi in Bello, onesto, emigrato in Australia sposerebbe compaesana illibata, Canberra ha deciso di regolamentare il fenomeno epocale dell’immigrazione secondo una logica semplice: la propria utilità.
La sproporzione fra territorio e abitanti potrebbe suggerire che gli Australiani, ossessionati da una paura compulsiva per lo straniero, stiano esagerando; a giudicare dal loro tenore di vita e dagli indici di sviluppo però, è più probabile che sappiano farsi bene i conti.
Se l’esodo epocale di milioni di persone che transumano dalla vera povertà alla (presunta) ricchezza riguarda il pianeta intero e le coscienze di tutti, è altrettanto vero che il diritto all’autoconservazione oltre ad avere in sé un valore giuridico, trova base anche nei buoni sentimenti. I valori cristiani su cui ruota la civiltà occidentale impongono il rispetto della vita, ma non dicono di farlo a scapito di quella degli altri. In altri termini, non è detto che sforzandosi di apparire buoni e accoglienti, si faccia il bene del prossimo e di noi stessi. Favorire lo sfruttamento dei disperati e non garantire un futuro certo (a migranti e locali indistintamente), è tutto tranne che misericordioso.
L’Australia, molto attenta alla propria identità cristiana, lo ha capito bene e si è mossa di conseguenza. Lungi dal farsi stordire dai fumi dell’ipocrisia come succede in Europa, ha considerato la protezione dei confini nazionali come una necessità istituzionale di interesse strategico e l’ha affidata al proprio apparato militare.
È nata così nel 2013 l’operazione Sovereign Borders, che essendo l’Australia un’isola, già dal nome lascia intuire tre cose:
- Riguarda il mare ma non è una gita in barca
- Con Marina non s’intende una canzone di Rocco Granata ma un’istituzione creata per difendere gli interessi nazionali
- Gli Australiani non intendono arricchire trafficanti di uomini e mafie capitali
La Royal Australian Navy con la componente aerea, le fregate Anzac e i pattugliatori Armidale (in futuro rimpiazzati da un ampio progetto di sviluppo) continua a sorvegliare le acque territoriali respingendo le navi che provano ad avvicinarsi alle coste illegalmente. Niente di meno e niente di più che un’operazione di rinforzo per la difesa delle frontiere, non a caso diretta dai militari ma articolata attraverso la collaborazione di tre grandi operatori: l’Agenzia Federale per le Frontiere; il Dipartimento per l’Immigrazione; la Polizia federale.
Da quando è iniziata l’operazione non ci sono stati morti fra i migranti e soprattutto nessuno si è lamentato, fatta eccezione per una parte della stampa. Al netto d’ipocrisie e tentennamenti, il governo australiano ha deciso di andare per le spicce su due fronti:
- in mare si affida al proprio strumento militare senza interpellare i vicini (Nauru, Vanuatu e altri Stati insulari non hanno marine militari; quella di Figi e Papua Nuova Guinea messe assieme hanno meno tonnellaggio della nave pirata dei Lego);
- a terra, ma fuori dai confini, si coordina con gli altri per la gestione dell’emergenza umanitaria in senso stretto.
Il filtro per le richieste d’asilo avviene in Papua Nuova Guinea, a Nauru e alle Figi, dove con l’aiuto di organismi internazionali si valutano i requisiti per l’accesso in Australia.
Non è considerata di primaria importanza la collaborazione con la TNI AL, la marina militare dell’Indonesia, unica potenza regionale dell’area. La cosa ha creato il gelo fra Canberra e Giakarta, indispettita dall’aggressività della RAN a ridosso delle proprio acque territoriali, ma dimostra, semmai ce ne fosse bisogno, che gli Australiani curano in primis ciò che li riguarda.
In tempi in cui il dibattito sull’immigrazione spopola, val la pena dunque riflettere. Magari anche da noi è il caso di abbandonare i retaggi ideologici ed affidarsi a principi più pragmatici.
Agli Australiani viene naturale forse in virtù della matrice anglosassone o forse grazie alla distanza che la rende immune ai venti della demagogia.
In fondo la Marina australiana di “Royal” ormai ha solo il nome. Se non fosse per la bandiera, nessuno ricorderebbe più che il capo dello Stato è ancora la Regina d’Inghilterra e che una parte di cuore, batte ancora nel Vecchio Continente…
Giampiero Venturi
(foto: DoD Australia)