12/05/2015 - Senza sentirci in debito con La Palice, possiamo sostenere che tutto ciò che accade incide nel tessuto della comunità in cui viviamo e ne modifica più o meno lentamente gli assetti.
Che nella lista ci sia anche la “questione migranti” è ormai di dominio pubblico.
Continuiamo quindi a parlare di Australia che con riguardo al fenomeno immigrazione e alle politiche del lavoro correlate, fa venire l’orticaria a molti.
L’occasione è ghiotta per fare chiarezza, evitando laddove possibile analisi redatte a caso (con una s o addirittura con due z).
Sarebbe ad esempio opportuno giudicare il “modello Australia” non nel merito, ma nell’impostazione. Limitarsi a dire “fa bene o non fa bene l’Australia a respingere i migranti…” finisce purtroppo per proporre l’ennesima dicotomia sterile, buona solo a ribadire sfere di appartenenza ideologica che niente danno e niente tolgono. Un clima tipicamente italiano a metàfra eterna guerra civile e Gattopardo, dove tutto si muove affinché tutto resti uguale.
Probabile invece che la buona novella dell’approccio australiano sia il pensiero strategico che sovraintende alla gestione del fenomeno migranti: il punto su cui riflettere è la volontà di cercare una soluzione (efficace o meno che sia) con uno occhio rivolto al futuro, distogliendo lo sguardo da interessi di parte.
Senza sciuparsi in pugnette, l’agilità di Canberra è stata tutta nella sintesi: “Esiste un fenomeno migratorio epocale sulla direttrice Sud-Nord del mondo? Affrontiamolo”.
Su questa base, tutto diventa possibile, per assurdo anche permettere l’ingresso a 1 milione di persone per un progetto d’integrazione strutturato su vasta scala. Se esiste una pianificazione articolata nel tempo, ogni scelta diventa legittima perché inserita in una visione d’insieme, immune da logiche di clan.
L’importante è la soluzione del problema, non il modo in cui la si cerca. Se la prima rientra nell’idea di interesse nazionale, la seconda trova attuazione in virtù degli esecutivi in carica, senza generalizzare.
Che in Australia fossero i conservatori di Tony Abbott a improntare Sovereign Borders potevamo aspettarcelo in base alla campagna elettorale del 2013, ma non era scontato sul piano ideologico. Scelte rigide sull’immigrazione sono state fatte in giro per il mondo anche da amministrazioni progressiste. L’esempio di Zapatero a Madrid vale per tutti.
L’efficacia di un sistema normativo spesso è inversamente proporzionale ai suoi contenuti ideologici. È il perno intorno a cui ruota la differenza tra politicanti e statisti: gli uni annaspano sul breve; gli altri pensano con l’ottica del lungo periodo.
Su questo l’Australia è una lezione per tutti, Italia in primis. Non ha fatto altro che mettere a nudo la propria “mission”, pensandosi come nazione anche nel futuro.
Forse perché cosciente del peso e delle conseguenze dei flussi migratori su cui essa stessa si è sviluppata, ha pensato al domani. Qualunque sia il modo, la cosa importante è che ne abbia immaginato uno. Nessun esempio può essere migliore per definire un “pensiero strategico”.
Una volta stabilita l’esistenza di un interesse nazionale e la volontà di perseguirlo, si può entrare nel merito di un progetto, il dibattito è aperto.
Sovereign Borders è la soluzione giusta o è frutto di un Alzheimer collettivo che impedisce agli Australiani di ricordare le proprie origini?
Gli Australiani sanno bene quanto l’immigrazione incida nei sistemi antropologici e culturali. Sanno bene quanto una civiltà abbia bisogno di linfa nuova per svilupparsi e germogliare ancora. Sanno ancora meglio però quanto sia fragile crescere in equilibrio. Quanto sia difficile garantire a una comunità complessa un’evoluzione armonica. Tenere sotto controllo l’orologio che ne detta i tempi, forse non è del tutto sbagliato. Di sicuro è più cosciente che lasciarlo al polso di una politica incapace o in malafede. Per questo o per quello, ai politici di Canberra i militari sono sembrati più affidabili delle chiacchiere.
La Storia in fondo ha bisogno dei suoi tempi, possibilmente senza acceleratori artificiali. Di pastrocchi, furberie, “magnerie” e masochismi vari, forse gli Australiani non sentono un bisogno urgente.
Giampiero Venturi
(foto: Australian Customs and Border Protection Service)