15/05/2015 - L’Ucraina con la primavera fa meno notizia. La ripresa delle ostilità in grande stile non c’è stata. Va via la neve ma tutto il resto rimane.
L’aeroporto di Donetsk, ingolfato al tempo degli Europei di calcio, è una sfasciacarrozze a cielo aperto: una lingua di macerie, crateri e carcasse.
Il cielo grigio sembra un abito gessato strappato. Fa freddo in Ucraina, anche se non è più tempo.
In una palazzina sfondata c’è il quartier generale di Givi, il comandante del battaglione “Somalia”, il fico più bello del cesto Nuova Russia. “Somalia” perché tra suoi ragazzi e i boy scout ci sono alcune differenze... Per i media ucraini sono terroristi tagliagole; per la gente del Donbass, patrioti coraggiosi.
Avvicinarlo è difficile da quando l’UE lo ha puntato per violazioni dei diritti umani. Con i giornalisti c’è più sarcasmo che amore. Qui la stima va solo a chi combatte.
Anche la press card ATO (Anti Terrorism Operation) rilasciata da Kiev non aiuta. I miliziani del Donbass un po’ ci ridono, un po’ ci s’incazzano.
Givi si lascia fotografare però, mentre fuma con le sue guardie del corpo personali imbottite di armi. Fuma come un Turco, ma per ironia della Storia fuma sigarette armene. Il Caucaso ce l’ha addosso; forse sono le sigarette o forse, come dicono alcuni, è Abcaso. Non è un moto da luogo latino, ma un cittadino dell’Abkhazia, lembo di Georgia che al crollo dell’URSS ha girato le terga a Tbilisi per guardare a Mosca. (Difesa Online tornerà con un reportage dalla Georgia).
Guai a dirlo a Givi però. Anche per lui Sukhumi e tutta l’Abkhazia sono parte di Madre Russia. Per il Caucaso del resto, vale la storia dei personaggi di Michail Lermontov: dove inizia e finisce la Russia dipende dall’interlocutore.
A pensarci bene Givi, all’anagrafe Mikhail Tolstykh, è caucasico in tutto. Anche se molto alto, somiglia più a un trafficante del Sud che a un Siberiano. È un mix tra George Clooney senza voce e Valerio Mastandrea con le occhiaie rinforzate. Lui dice di essere nato a Ilovaisk, alle spalle di Donetsk e di sentirsi russo da sempre. È sprezzante e narciso, ma forse più buono di quanto vuole far credere. È diventato popolare con youtube. Piovevano i Grad, mica polpette, ma lui fumava tranquillo…
Il fumo è un ritornello in Ucraina: le esplosioni, l’alito al freddo, le tazze di tè, gli scarichi dei carri, le macerie, le sigarette, i media occidentali… è tutto un fumo l’Ucraina. Fumo grigio come il cielo e la faccia di Givi.
Sa di piacere; ripete la sua parte col nome in cirillico e il patch con la bandiera russa sul giubbotto mimetico. Porta con sé una Makarov che brandisce ogni tanto per aiutare il suo mito.
È stato lui a cacciare i “cyborg” (i soldati di Kiev) dall’aeroporto di Donetsk. Lui insieme a Motorola, che non è un telefonino ma il soprannome di Pavlov, il comandante dello “Sparta”, battaglione speciale diventato leggenda nel Donbass. Hanno entrambi grande esperienza di guerra di carri. La loro fama è nata a settembre proprio a Ilovaisk, con la prima grande disfatta dell’esercito ucraino.
Per entrare all’aeroporto basta aggregarsi alla stampa. Per entrare nelle zone interdette invece bisogna pagare un “invito”. La guerra ha un prezzo in ogni cosa. Ormai il “terminala” è un monumento alla vittoria sui golpisti ucraini.
Davanti alla brutta palazzina di Givi c’è un parcheggio di BMP e casse vuote di munizioni. Non c’è un infisso, un balcone, un pezzo di muro senza i segni della guerra.
Givi ne va fiero. “Chi non è in prima linea non è un uomo…” pare dica spesso. Ha 35 anni ma tratta i più giovani come nipoti. Dicono che spari sulle pareti per dare la sveglia. Alcune cose sono leggende, altre cazzate… altre ancora sono vere.
Di vero c’è una generazione europea che puzza di guerra. Non solo Ucraini, ma anche gente che viene da fuori. Uno è Motorola, russo di nascita, come molti volontari della brigata “Vostok”. Come i Serbi venuti ad aiutare i “fratelli Russi”: i cetnici di Zivkovic e quelli del reggimento ussaro. Come altri volontari di altri Paesi.
Di vero c’è che nel fumo dell’Ucraina orientale si fonde tutto in una grande minestra grigia: i miti, gli eroi, i violenti, i coraggiosi, i criminali…
Nella follia della guerra, tra gli uomini riecheggiano valori e controvalori antichi. Principi elementari trasformano gli esseri umani in branchi primordiali, dove per assurdo si recuperano sentimenti sopiti.
La voce di Givi corrosa dalle sigarette si rivolge ai suoi. Dice “Grazie a Dio” ogni tre parole. Si fuma in piedi, col tè in mano. Facce grosse, colli enormi e taglie grandi da uomini dell’Est. Si dividono tra “noi” e “loro”.“Noi” è la gente del Donbass secondo una retorica molto sentita tra i miliziani; “loro” è il governo golpista di Kiev “che manda a morire coscritti di 17 anni”.
È una guerra antica quella del Donbass. Una guerra antica fra uomini che si dividono in amici e nemici.
“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i suoi amici”. Lo dice il Vangelo e lo ripete spesso proprio Motorola… Dio prende sempre più il posto di Lenin nell’iconografia dei giovani russi e novorussi.
Tra una croce e una mimetica, qui i capi fanno la ramanzina. La paternale è un’abitudine russa: Zakharchenko, il leader della Repubblica del Donetsk, gira sul fronte e interroga di persona i prigionieri ucraini, rimproverando e perdonando (se va bene). Lui che s’ispira agli antenati Cosacchi è il prototipo del padre che rimprovera i figli, come in un romanzo di Turgenev. Tutto sembra radicato, severo, marziale, freddo, burbero, vagamente antisemita. In sintesi, profondamente russo.
La guerra nel Donbass è la pagina di uno struggente, infinito, meraviglioso e tragico romanzo russo. Chi la legge alla svelta, alla facilona, all’americana… commette solo grandissimi errori.
articolo Giampiero Venturi
fotoreporter Giorgio Bianchi