16/05/2015 - Nel mediocre film La miglior difesa è la fuga del 1984 con Eddie Murphy, gli USA erano in guerra contro un ipotetico Iraq che aveva invaso un ipotetico Kuwait. La scelta cinematografica dell’Iraq era sembrata politicamente corretta perché nella realtà di quegli anni l’Iraq era coccolato dagli USA (scandalo Irangate a parte…) nella guerra contro l’Iran di Khomeini.
Nessuno, Iraq compreso, avrebbe potuto lamentarsi.
A volte però, la Storia sa essere più comica dei film. Nel 1990, infischiandosene delle coccole, Saddam Hussein invase il Kuwait per davvero, dando l’avvio ad un intervento americano questa volta non solo cinematografico e alla Prima Guerra del Golfo.
Non sappiamo se la chiaroveggenza del regista fosse stata ispirata da Allah o da una botta di culo, sappiamo però che nell’immaginario collettivo Saddam si trasformò rapidamente da paladino della laicità occidentale, in mostro sporco e cattivo. Così cattivo che quando il 9 aprile del 2003 gli Americani entrarono a Baghdad per dare un taglio alla sua biografia e alla Seconda Guerra del Golfo, nessuno ebbe da ridire.
Sotto l’effetto di un’overdose di coscienza democratica, tutti gli analisti in modo trasversale giudicarono la caduta del rais come cosa buona e giusta. Tranne gli antagonisti di mestiere e qualche rara eccezione, progressisti e liberali si abbracciarono per celebrare la fine di una dittatura. Saddam ne aveva combinate troppe e lo stesso sdegno liberal per la sua impiccagione televisiva fu sacrificato sull’altare della democrazia a tutti i costi. Se per la campagna militare c’erano stati dibattiti e divisioni, sulla fine di un dittatore si ritrovarono tutti d’accordo.
Quello che sarebbe stato dell’Iraq nel decennio successivo, lo hanno visto anche i ciechi. Alla luce dei fatti, la soddisfazione democraticista ha cominciato a diluirsi pian piano, fino a diventare negli anni dubbio e addirittura rimorso. In altre parole, ammettere col dovuto cinismo che l’Iraq di Saddam fosse migliore di quello di oggi, in geopolitica non è sembrata più una bestemmia.
A differenza di altri mammiferi però, gli esseri umani hanno spesso la memoria corta. Se basta una musichetta per addestrare un orso al circo, non sempre le cadute dei rais arabi sono sufficienti per riflettere.
Quando nel 2011 la cosiddetta Primavera araba uscì dall’incubazione, prese a rullare di nuovo il tamburo del pensiero buono. Anziché analizzare caso per caso gli scenari politici dei Paesi coinvolti dalle rivolte di piazza, la febbre da democrazia a tutti i costi cominciò a salire di nuovo alimentata da analisi sfasciste, luoghi comuni e giornalismi rock.
In un mese caddero tre colonne del mondo arabo: Bel Alì in Tunisia, Mubarak in Egitto e Gheddafi in Libia.
Se sembrava comprensibile il compiacimento delle folle nei Paesi interessati, era meno giustificabile la soddisfazione univoca avuta in Occidente, ancora una volta alle prese col ritornello “quando cade un dittatore siamo sempre a cavallo”. Il ragionamento poteva essere logico per un approccio etico in virtù delle criticità sociali dei Paesi in rivolta, ma non poteva esserlo pensando in termini di equilibri geopolitici.
Emblematico l’esempio dell’Egitto.
Gli applausi ciechi rivolti dall’opinione pubblica occidentale alla rivolta di piazza Tahrir nel 2011, non tenevano conto degli inquietanti scenari su cui si affacciava il Paese. Pur nella corruzione e nel malcostume diffuso, Mubarak era pur sempre stato il continuatore della politica di apertura verso Israele, che sulla scia di Camp David aveva dato al mondo un’alternativa al ripetersi periodico delle guerre arabo-israeliane. Soprattutto dal pensiero liberal, almeno questo credito al presidente egiziano ce lo si aspettava.
Caduto il decano Hosni dallo scranno del Cairo, un certo Occidente aveva perfino ammiccato alla salita al potere di Morsi, eletto presidente con suffragio nel 2012.
Al di là dei contenuti politici, il laicismo febbrile che ipnotizza l’Occidente non riusciva a vedere il pericolo storico: con la salita al potere dei Fratelli Musulmani, per la prima volta un grande Paese arabo veniva guidato da un partito che almeno sulla carta mischiava pesantemente Islam e politica.
C’è voluto un altro intero anno perché la smania di democrazia facesse i conti con gli interessi pratici. Benché iniziato col rischio di scoperchiare altre pentole pericolose (gli ultimatum americani ad Assad e la sua defenestrazione scongiurata), il 2013 sembra aver portato buon senso. In Europa si sono fatti grandi progressi: si è addirittura evitato di protestare per il colpo di Stato militare di Al Sisi.
Nonostante l’autoritarismo di Al Sisi non invidi nulla a quello di Mubarak (uniche differenze, Mubarak veniva dall’Aeronautica ed era più telegenico), le analisi sulla situazione in Egitto sono state defilate ponendole ai margini di cronache e focus. Un mezzo miracolo mediatico.
Vedremo se durerà. Il 16 maggio del 2015 Morsi è stato condannato a morte, con rinvio della decisione finale. Le condanne ricevute per atti compiuti da presidente, si sono sommate a quelle per le cospirazioni precedenti.
Più che un atto giudiziario è un atto politico. Semmai ce ne fosse bisogno, è l’ennesimo messaggio dell’attuale sistema di potere al Cairo.
Probabile che le lancette della democrazia in Egitto, già in ritardo considerevole, abbiano fatto altri scatti indietro. Probabile che il fenomeno frettolosamente battezzato come Primavera araba qualche anno fa, sia stato oggi coagulato per sempre.
Può sembrare cinico ma in un Paese strategico di 80 milioni di abitanti costantemente in bilico su un precipizio, che questo sia un male, è tutto da dimostrare. La geopolitica, come la Diplomazia, non coincide col Diritto.
Aspettiamo con ansia il prossimo tonfo di un rais e la stupidità dell’Occidente a fargli da eco.
Giampiero Venturi