01/06/2015 - Si parla molto di profughi nel Sudest asiatico. La Birmania dei militari caccia le minoranze Rohingya…

Allarme profughi reale o accuse di comodo?

 

Myanmar, per gli amici Birmania. Quando i militari cambiarono il nome per rappresentare tutti e non solo i Burma, era solo strategia politica. Tutti hanno continuato a chiamarla alla vecchia maniera.

In fondo in Birmania cambia tutto, ma tutto rimane uguale. La Rangoon di prima oggi si chiama Yangon. Ci sono ancora le ambasciate ma ufficialmente la capitale è Naypyidaw, 400 km a nord.

Sotto i suoi tetti verde menta, la Birmania sembra rimanere eterna. Le sue auto col volante e il senso di marcia a destra; le zanzare che portano il dengue; i risciò che portano gente; gli uomini che portano i longyi, la gonna tradizionale burma... tutto è immobile. Eppure qualcosa si muove. Si muove da sempre in realtà.

Il Paese, sotto controllo militare del regime pseudo comunista è una costola della Cina. Il Tatmadaw (le forze armate) è ovunque, non solo al potere. Basta prendere un bus extraurbano per iniziare a contare i check point. Nelle aree calde della guerriglia nello Stato dello Shan sono continue, ma anche in aree tranquille la vigilanza è fortissima. Sentirsi pedinati in Birmania non è una paranoia. I Servizi e l’Esercito sono onnipresenti. Discreti ma onnipresenti.

L’area a sudovest verso la Thailandia invece fa storia a sé ed è inaccessibile agli stranieri. La guerra aperta fra esercito regolare e l’Esercito di Liberazione Nazionale Karen è taciuta solo dai media, ma miete migliaia di vittime da anni. Quella dei Karen è solo la più vistosa tra le rogne etniche della Birmania, dilaniata da rivalse di popoli soggiogati alla maggioranza Burma fin dall’indipendenza.

Il problema dei profughi è una costante in tutta la storia del Paese. È parte della cultura nazionale. Come il belet, l’impasto rossastro principale causa di cancro e scatarri; come la thanaka, la crema gialla usata come rinfrescante dalle donne.I profughi fanno parte di questo angolo di mondo e per mezzo secolo nessuno ne ha parlato.

Silenzio sui Karen e silenzio sul popolo Shan perché considerate questioni interne alla nazione. Silenzio anche sui Rohingya, minoranza islamica dello Stato del Rakhine.

La sublime sfiga dei Rohingya è essere minoranza per definizione. Minoranza in contrasto con i buddisti birmani ma minoranza bistrattata anche nel Bangladesh islamico da cui provengono originariamente, a riprova del fatto che la religione spesso è solo il paravento della politica. Costretti a fuggire finiscono tra Erode e Pilato, sballottati nell’Oceano Indiano tra Malesia e Indonesia.

Per magia, d’improvviso, il problema riaffiora. Giusto in concomitanza con l’allarme esodo nel Mediterraneo, Myanmar, Indonesia e Malesia finiscono nell’occhio del ciclone per una novella questione profughi.

Inizia la danza dei premi nobel per la pace. Il Dalai Lama accusa Aung San Suu Kyi di non fare abbastanza per difendere la dignità umana e il rispetto delle minoranze.

Il buddista Dalai Lama, riferimento mondiale dell’indipendentismo tibetano, parla contro i buddisti burma per difendere dei musulmani? Verrebbe da pensare che non sia astemio…

Leggendo oltre le righe si capisce la logica anticinese. La Cina è il primo sponsor (oltre alla Corea del Nord) dei militari al potere in Birmania. Le sue parole arrivano a nuora affinché suocera intenda.

Aung San Suu Kyi viceversa tace. La Hillary Clinton dei tropici, donna immagine del qualunquismo rosa in stile Dem, evita di criticare il governo di Yangon nell’imbarazzo generale. Proprio lei, incarcerata come Mandela e simbolo della rivalsa democratica su tutte le giunte militari del mondo?

La politica fa miracoli, niente da dire.

L’ipocrisia collettiva diventa una barzelletta. I profughi Rohingya di cui non interessa a nessuno, finiscono per essere lo strumento di obiettivi politici. Ognuno li usa per qualcosa:

  • Il Dalai Lama per attaccare i Birmani e quindi la loro dante causa Cina.
  • L’Occidente democratico per alzare il volume sugli allarmi umanitari, sempre comodi in chiave ideologica
  • Aung San Suu Kyi, in silenzio, per evitare di irritare i militari un tempo nemici, oggi complici di una ribalta internazionale evidentemente comoda.

Tutto questo alle spalle della gente comune, non solo dei profughi. Alle spalle di quei ritmi lentissimi di un popolo che non conosce i jeans e vive masticando belet, sotto i tetti color menta di eredità coloniale britannica.

Tutto questo mentre a Yangon, come ogni sera, arrivano le zanzare a squadriglie con la musica di Apocalypse Now.

È una delle costanti di Myanmar, la DDR del Sudest asiatico che sonnecchia ma continua a vivere. Con i suoi ritmi lenti, scossi di tanto in tanto dalla pressione cinese e da qualche morto di troppo.

Giampiero Venturi