17/06/2015 - Il sistema elettorale francese, basato sul maggioritario uninominale a doppio turno, ha spesso consentito al partito socialista di sopravvivere nonostante le frequenti emorragie di consensi.
Non di rado gli accordi al secondo turno hanno salvato in corner i candidati del centrosinistra non solo per la convergenza dei voti della gauche radicale, ma perfino con l’appoggio del centrodestra, così da isolare gli scomodi candidati del Front National, spesso primo partito nei singoli collegi.
Il principio ha avuto senso anche al contrario. La dimostrazione più grande fu il ballottaggio per le presidenziali del 2002 quando i voti della sinistra permisero a Chirac di battere Jean Marie Le Pen e prepararsi al secondo mandato.
Il sistema francese garantisce stabilità ma crea un certo imbarazzo nelle istituzioni, tenute in piedi dalla paura dell’estremismo nazionalista ma nei fatti sempre meno rappresentative dei sentimenti popolari.
Da almeno vent’anni questo processo si è consolidato. Più o meno da quando l’Europa si è trasformata da una dichiarazione d’intenti a un corda intorno al collo di molti, francesi compresi. L’ascesa costante del Front National è evidentemente legata all’intero processo.
L’europeismo francese si è sempre diviso fra gli internazionalisti di sinistra che al pari dei loro omologhi in giro per il mondo si battono per un mondo idealmente senza frontiere e i fautori di un ritorno della Francia a una non meglio definita grandeur.
Se i primi sembrano usciti da un film di Michel Leclerc e finiscono per diventare testimoni di principi apprezzati solo nei circoli intellettuali delle grandi città, i secondi devono fare i conti con due grandi contraddizioni:
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a Bruxelles si parla più tedesco che francese e la grandeur, già compromessa su scala mondiale, appare difficile da riesumare anche su scala continentale;
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il ritorno della Francia al comando integrato NATO avvenuta nel 2009 dopo 43 anni di indipendenza, nei fatti è una sottomissione alla geopolitica americana, non sempre allineata storicamente alle velleità di Parigi.
Sia per gli uni che per gli altri appare sempre più difficile appagare quel sentimento popolare radicato nelle aree rurali, ossatura millenaria di una nazione a grande trazione agricola e serbatoio di consensi per Marine Le Pen.
Se la Francia profonda scalpita sulle ali di un revanscismo sempre più antieuropeista, con tutta evidenza il dramma potrebbe sembrare più socialista che gollista. Ma pour la France all’Eliseo tutto è possibile: anche accarezzare tematiche care al FN come il ripristino dei controlli alle frontiere con l’Italia. Ovviamente alla salute della gauche europeista parigina e soprattutto di quella a sud della Alpi.
Quanto questo dipenda dal sentimento nazionale dei francesi che spesso travalica le differenze ideologiche o da calcoli elettorali, è difficile da dire.
I socialisti hanno perso 150 municipi alle amministrative del 2014 e sono dati per dispersi alle presidenziali del 2017, dove con ogni probabilità trionferà il FN e Sarkozy tornerà in carica.
Il Presidente Hollande e il ministro degli Interni Cazeneuve lo sanno bene.
Che le frontiere vengano chiuse pour la France o pour la chaise non possiamo saperlo. La politica affianca i propri interessi a quelli pubblici in tutto il mondo, si sa.
Quale dei due fattori pesi di più non è però così importante. Quel che conta è che le istituzioni francesi rispondano ad una fortissima domanda proveniente dal basso.
Sistemi elettorali e partiti a volte possono meno della vox populi. Quella voce che i francesi esprimono con un senso di comunità straordinario, da cui noi italiani possiamo soltanto imparare.
Giampiero Venturi
(foto: Ministère de la Défense)