23/06/2015 - L’intero continente africano nel 1950 contava 200 milioni di anime. Nel 2014 la popolazione era stimata sul miliardo e 100 milioni. Considerando che tecnologia e globalizzazione hanno nel frattempo reso il mondo più piccolo, viene da sé che l’Africa e le sue criticità siano un appunto frequente nell’agenda di molte cancellerie.
Che si parli di politica, economia o migrazioni poco importa: la questione Africa è centrale e nessuno lo sa meglio di noi.
Gli spunti maggiori trovano eco nel fenomeno migratorio ma in realtà l’Africa è un continente irrisolto al di là dei barconi e delle politiche malavitose che ci lucrano intorno.
Ecco così che mentre in Europa ci si flagella col senso di colpa ben oltre le responsabilità storiche (come già scritto in precedente articolo) altrove il problema non si pone nemmeno.
È il caso della Cina, colosso non ancora battezzato come potenza geopolitica mondiale ma ormai ben presente in tutti quei settori che permettono di diventarlo.
La Cina è bulimica di materie prime e l’Africa a tutt’oggi rimane il mercato più fornito e accessibile. Un mercato aperto, caratterizzato a tratti da un vuoto politico totale.
Tirare le somme è facile: in un decennio il tasso di crescita degli scambi Africa-Cina è aumentato di quasi il 20% annuo. L’interscambio ha toccato un volume di 200 miliardi di dollari solo per il 2014 e gli investimenti diretti sono arrivati a quasi 3 miliardi di dollari. Dalle riforme anni ‘90 in poi la penetrazione cinese ha coinvolto praticamente tutti i Paesi del continente. Investimenti per infrastrutture in cambio di petrolio e risorse naturali.
Come è stato possibile?
Cominciamo col dire che una bozza di sbarco cinese in Africa ci fu negli anni ‘70 quando il grosso degli Stati africani aveva già ottenuto l’indipendenza.
Tramontato il colonialismo de La mia Africa, il continente nero si adattava agli equilibri della Guerra Fredda con riflessi diversi da Stato a Stato. La contrapposizione in blocchi fu infatti più rapida dove erano più deboli le eredità coloniali, dovute o una breve permanenza (l’Italia rimase in Etiopia meno di sei anni) o al declassamento del Paese colonizzatore, come nel caso del Portogallo.
Proprio gli esempi di Portogallo e Italia sono sufficienti per citare tre grandi aree di crisi da inquadrare nel confronto EST-OVEST: la guerra civile in Angola dove URSS e Cuba aiutavano il governo contro l’UNITA filo occidentale di Savimbi; la guerra civile in Mozambico con la guerriglia filo occidentale della RENAMO contrapposta al governo marxista del FRELIMO; la guerra dell’Ogaden fra l’Etiopia del filo sovietico Menghistu e la Somalia filo americana di Siad Barre.
Nei primi due casi il coinvolgimento di Pechino non fu un mistero. Dal punto di vista pratico il fatto non ebbe però rilievo, perché davanti alla Cina si ponevano tre ostacoli insormontabili:
- La preponderanza dell’asse sovietico-castrista nella gestione dell’internazionale comunista;
- economia e società ancora strutturate sul modello maoista, ben lontane dal capitalismo di stato in vigore oggi;
- come conseguenza del secondo punto, un potere geopolitico pressoché nullo (fatta eccezione per il seggio permanente al Consiglio di Sicurezza).
Il primo punto è ormai storia. Con la fine del blocco sovietico, in Africa sono stati archiviati i conflitti generati dalla Guerra Fredda e un enorme vuoto politico ha permesso la nascita di nuovi standard. Se nelle ex colonie Gran Bretagna e Francia hanno prolungato i legami storici e politici, in tutte le aree instabili si è aperto uno spazio buono per il miglior offerente (o meno scrupoloso che dir si voglia).
Ecco che la Cina, dove il reddito pro capite dal ’70 al 2000 è cresciuto di 30 volte e il tasso di crescita del PIL in dieci anni è cresciuto a una media del 8-9%, non si è tirata indietro.
Spinta dalle aspirazioni a potenza globale e da urgenze energetiche, Pechino non ha nemmeno avuto il freno etico (compreso quello finto-etico terzomondista) che in parte lega le mani all’Occidente.
In sintesi: se uccidere un gorilla in Tanzania può generare uno sciopero generale in Europa, lo smaltimento illegale di scorie radioattive o la deforestazione di mezza Africa australe da parte di ditte cinesi passano inosservati.
Così, mentre i dibattiti sterili delle opinioni pubbliche occidentali proseguono, la Cina continua la sua penetrazione a mani basse in tutta l’Africa, arrivando a presenze di lavoratori stanziali intorno alle 800.000 unità.
Noi occidentali chiudiamo gli occhi sul fenomeno anche aiutati da analisti del paleozoico pronti a giurare che la Cina sia tutto tranne che colonialista.
Per capire che l’aggressione commerciale e finanziaria cinese sia in realtà un fattore geopolitico basta guardare ai vincoli contrattuali generati dall’indebitamento di molti Paesi africani con Pechino: il 70% delle società d’estrazione in Angola per esempio, sono cinesi.
Chi parla di Africa, di barconi, di sfruttamento europeo e continua a sventolare l’ombra del colonialismo, dimentica in blocco quanto in realtà sta avvenendo da anni. All’imperialismo europeo sepolto dalla Storia, se ne è sostituito un altro, quello cinese che sul piano dei diritti civili, dell’ambiente, dei diritti sindacali e del semplice rispetto della vita è indietro di decenni.
L’Europa va alla deriva, l’Africa s’incendia e la Cina soffia su entrambe. Ma alla Cina si sa, tutto è permesso.
Giampiero Venturi