30/07/2015 - Da una parte i blocchi dell’ultima edilizia socialista, dall’altra il vetro dei palazzi istituzionali e le bandiere blu che ci si riflettono dentro. In mezzo i tram snodati scivolano sul prato basso. “Viale dei cecchini” è così: un leggero piano inclinato che da Sarajevo porta fuori, oltre la conca di colline che l’hanno protetta e ferita.
Vent’anni fa su questa strada il pericolo erano i colpi franchi dai piani alti dei grattacieli. Tra questi l’Holiday Inn, sede della stampa ai tempi delle bombe e le torri gemelle in vetro cemento, simbolo della città e scheletri di guerra.
Ora tutto finge normalità. Un cartello indica Tuzla, nome storico verso est.
La Bosnia è così: una stanza verde a soqquadro piena di ricordi. Ogni scritta evoca qualcosa di sentito e di tragico, ma basta distrarsi e per perdere l’attimo.
La strada verso est portava all’inferno. Uno dei tanti nell’asse nord-sud lungo i confini croato e serbo, cuore dell’antica Jugoslavia. Da Tuzla a Brcko verso il fiume Sava sono 50 km, un passo breve e lunghissimo insieme: per arrivare a Brcko si passa la Linea di Confine Inter-Entità tra la Republika Srspka e la Federazione Croato musulmana.
Dopo la serba Lopare, qualche km e a Čelić si rientra nella Federazione. Dopo Čelić c’è il distretto di Brcko che non è né un’entità né l’altra, contraddicendo di fatto gli Accordi di Dayton. Questa è la Bosnia.
Non c’è bisogno nemmeno di pensare che a 70 km da Brcko, in Croazia, c’è Vukovar: altra storia, altra guerra, altro dolore. Nessuna area come l’Est rappresenta meglio il calderone etnico jugoslavo e i guai che ne sono conseguiti. Nelle valle verdi che da Tuzla portano a sud verso la Serbia, tre puntini riempiono di silenzio la storia recente dell’Europa e dei suoi fallimenti: Zepa, Goradze, Srebrenica. Tre puntini che ricordano come la guerra civile bosniaca si sia attivata su detonatori per ironia della sorte in contrasto tra loro:
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l’esistenza di un equilibrio tra etnie (Serbi, Croati, Bosgnacchi) che non ha permesso la prevalenza dell’una sulle altre ma di fatto ha garantito una tensione costante;
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la permanenza di un’enclave di un’etnia all’interno di un’area etnicamente diversa e compatta.
In una logica di accordi per una spartizione territoriale (sul modello Grecia-Turchia degli anni Venti), se il primo punto ha reso le cose difficili, il secondo è stato spesso benzina sul fuoco.
Srebrenica ha avuto il triste onore di rappresentare questo fuoco peggio di Zepa, di Goradze, di altre decine di luoghi in tutto il Paese. Ma è solo questione di numeri.
A Srebrenica secondo le cronache morirono 8000 musulmani, massacrati dalla VRS di Mladic. Il mondo con ipocrisia rinnovabile ne ricorda il ventennale. Ma l’Europa in realtà non è morta a Srebrenica, era caduta già prima.
Era caduta con la delega in bianco data agli USA di Clinton, prima prova di maturità fallita dopo la fine della Guerra Fredda. Solo col passaggio al Dipartimento di Stato da Warren Christopher a Madeleine Albright si sarebbe compreso il nanismo politico europeo e quanto pesanti fossero gli obiettivi strategici americani disegnati dietro alla questione balcanica:
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Albania e Kosovo da aggiungere al sentiero ideale che lega l’Adriatico a Bulgaria (in odore di NATO già a fine anni ‘90) e alla fedelissima Turchia
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eliminazione di Milosevic e del suo entourage serbo ancien régime incompatibili col nuovo ordine mondiale nascente.
L’Europa era già caduta con gli affari loschi sugli aiuti umanitari di Naser Oric, responsabile di pulizie etniche citate in fretta perché meno convenienti. Era già morta e sepolta nel 1994, quando le cifre della vergogna non erano troppo lontane da quei 300.000 civili morti, 3 milioni di profughi, 1000 campi di prigionia illegali, decine di migliaia di stupri, 15.000 bambini uccisi che si sarebbero registrati alla fine del 1995.
Fare l’elenco delle fosse comuni e delle località dove si sono concentrate violenze è tempo perso. Non c’è villaggio che non abbia cicatrici, non c’è etnia che risulti immune da responsabilità e dolore.
Nella guerra civile in Bosnia chi è senza peccato scagli la prima pietra. Vale soprattutto per la comunità internazionale lesta a lavarsi le mani con la Corte dell’Aia e ancora più lesta a chiudere gli occhi per interesse.
Gli scenari inquietanti venuti a galla dai corridoi dei Servizi olandesi e dalle rivelazioni di Ibran Mustafic, membro di Azione Democratica (SDA, il partito di Itzebegovic), diventano polvere da nascondere sotto il tappeto. Si è parlato perfino di numeri gonfiati e di Srebrenica come una sorta di Pearl Harbour: una catastrofe annunciata da trasformare in escamotage per un intervento definitivo anti serbo.
Non a caso se ci si sbrigò a condannare l’inerzia dei Caschi Blu olandesi (gli uomini della Luchtmobiele Brigade impiegati come Dutchbat) davanti ai fatti del luglio ’95, si fece ancora più in fretta a dimenticarsene.
La verità in guerra si perde nella polvere e nella paura.
L’unico orrore reale è che dietro agli intrecci tra gruppi di potere occidentali e bosniaci, in un mix di denaro sporco, interessi geopolitici e cattivo gusto balcanico, tanti innocenti hanno pagato con la vita nel cuore di un continente civile.
Le responsabilità per ogni comportamento disumano vanno perseguite, questo è un valore assoluto. Valore simile però è impedire che succedano ancora. Per questo è bene raccontare i fatti senza manicheismi rischiosi che rendono ancora più difficile la cicatrizzazione di ferite aperte. Il dramma del Kosovo, da filtrare con le frustrazioni seguite alla guerra civile di Bosnia, ne è stata la dimostrazione.
Il male della Bosnia è un male antico e non può bastare un approccio hollywoodiano per descriverlo tutto. Fatte salve le responsabilità criminali dei singoli, non può bastare l’identificazione del cattivo per chiudere la partita. Se Željko Ražnatović a suo tempo si sposò con l’uniforme da generale della Prima Guerra Mondiale, qualche nodo insoluto nei Balcani forse doveva ancora esserci…
Oggi lungo le curve verdi della campagna bosniaca, scorrono pagine che nessuno vuole più leggere. Srebrenica è una cittadina come tante nascosta tra valli strozzate e silenzi lunghi. Una città diversa dalle altre su cui si dice troppo senza dire tutto.
Nonostante la cronaca, in virtù degli Accordi di Dayton Srebrenica oggi è parte della Republika Srspka, unica delle due entità federate bosniache ad avere una base etnica.
L’ironia nella Storia dei Balcani non conosce fine.
Giampiero Venturi
(nell'ultima foto Thom Karremans, il comandante che guidava le truppe olandesi a Srebrenica, nel ’95)
Leggi anche la prima parte: la Bosnia inventata
Leggi anche la seconda parte: il silenzio che vale per tutti