30/06/2015 - Ci sono commemorazioni che marcano maggiormente il distacco tra passato e presente, poiché ciò che si vuol ricordare è scomparso senza lasciare più traccia. Al contrario esistono celebrazioni che segnano una linea di continuità durevole, senza fine e che vive, intatta e pura, nello spirito dei presenti.
Questo è quanto accade, ogni anno, sul Col Moschin, quando gli arditi di oggi – gli incursori del 9° reggimento – abbracciano spiritualmente i loro antichi fratelli, o forse meglio definirli “padri”, della prima guerra mondiale.
Nel 1918, un manipolo di ragazzi guidati dal maggiore Giovanni Messe, mise letteralmente a ferro e fuoco le cime del Monte Grappa: in pochi giorni i nomi Col Fagheron, Col Moschin e Fenilon accesero lo spirito dell’esercito italiano che, su quelle cime, immolò i suoi uomini migliori.
Gli arditi, le cui glorie riempiono le pagine di molti libri di storia, sono state le prime forze speciali dell’esercito italiano, non tanto per la loro peculiare organizzazione, quanto per le loro azioni e il modo di combattere. Gli uomini di Messe marcano, infatti, un punto di rottura essenziale rispetto i tradizionali manuali di fanteria dell’epoca che seguivano ciecamente il dogma dell’attacco frontale e il conseguente sacrificio inutile di vite umane.
Siamo d’accordo, l’idea delle truppe d’assalto non nasce nel Regio Esercito, tuttavia ha trovato in Italia la sua espressione migliore. Diamo, inoltre, il giusto tributo alla fanteria che seguiva, non senza difficoltà, l’avanzata degli arditi: senza il loro apporto, i sacrifici delle Fiamme Nere, sarebbero diventati un inutile massacro.
Tra gli uomini del maggiore Messe, gli ex sabotatori e gl’incursori del 9° reggimento paracadutisti d’assalto, esiste, dunque, un vincolo inscindibile. A partire dal nome - Col Moschin - la numerazione e le mostrine nere, sono segni tangibili di questa continuità, ma il vero trait d’union che cementa il passato al presente, dimora nello spirito che anima le scelte e le gesta di questi uomini. Abnegazione, senso del dovere, spirito di sacrificio e amore per l’Italia, sono i cardini sui quali poggia il carattere dei ragazzi, di ieri e oggi.
Li osservi schierati, con le loro mimetiche e il basco amaranto, di fronte al cippo commemorativo con sguardo fiero, consapevoli della loro scelta la quale, troppe volte, li conduce all’estremo sacrificio; se scruti nei loro occhi, capisci che ciò che desiderano non è pubblicità, clamore o prime pagine, ma rispetto e – aggiungo io – un briciolo di gratitudine in più da parte nostra e delle istituzioni.
In un momento dove il Paese sembra aver perso la bussola, monumenti come quello sul Col Moschin, sul Monte Grappa, o Redipuglia, sono la luce in fondo al tunnel; ricordare gli arditi, i fanti, avieri e marinai, che hanno sacrificato la loro vita, possono davvero salvarci da un tracollo culturale che mette in pericolo la nostra identità. L’esercito, è risaputo, segue la politica del “fare”, dell’eseguire ciò che viene loro ordinato… e gli incursori del Col Moschin lo sanno bene, poiché sono abituati a dare il massimo, in ogni circostanza. Come le Fiamme Nere non si fanno troppe domande: parafrasando lo stesso Messe – prima dell’attacco – “Dobbiamo prendere il Col Moschin ad ogni costo”… e così fecero… e così fanno.
La commemorazione della battaglia è iniziata il 26 giugno al mattino: confortati da un cielo limpido, 8 incursori paracadutisti – tutti istruttori TCL – sono atterrati sulla cima del colle, con straordinaria precisione, in un fazzoletto di terra. Legati a loro sventolavano le bandiere del 9° Reggimento, del 1° battaglione e naturalmente quella italiana.
Il giorno successivo, il 27 giugno, un piccolo distaccamento del 9° ha presenziato alla bella cerimonia che ha ottenuto un buon numero di partecipanti, sia tra le associazioni d’arma – Alpini e ANPd’I in prima linea - sia tra le autorità politiche regionali e nazionali. L’ANIE (Associazione Nazionale Incursori Esercito) con il suo presidente, colonnello incursore Angelo Passafiume, ha fatto gli onori di casa con la consueta sensibilità e ospitalità.
Il 28 giugno, la memoria collettiva, ha fatto un balzo in avanti per rievocare i tragici eventi di Cima Vallona del 1967, l’attentato in cui persero la vita i sabotatori paracadutisti sottotenente Mario di Lecce e sergente Olivo Dordi, insieme al capitano dei carabinieri Francesco Gentile. Con loro c’era anche il sabotatore paracadutista sergente Marcello Fagnani (foto a dx), unico sopravvissuto di quel triste giorno e testimone principale della giornata. La Medaglia d’Argento al Valor Militare Marcello Fagnani, membro dell’ANIE, è la testimonianza vivente che certe scelte comportano rischi incomprensibili ai più. Eppure dal suo volto non è mai mancato il sorriso: un animo nobile, orgoglioso e fiero. Noi non possiamo fare altro che ringraziarlo.
Tutte le cerimonie hanno seguito un filo comune, non solo nella storia, ma anche nel ricordare i due incursori scomparsi in questi ultimi giorni: il primo maresciallo incursore Salvatore Zonchello, deceduto a causa di un improvviso malore, e il sergente maggiore incursore Sergio David Ferreri, morto in addestramento durante un lancio TCL.
Non bagnamo la loro memoria solo con le lacrime o usando sterili parole circa il dovere, la pericolosità del loro lavoro, ecc. Essi, infatti, continuano a vivere nella memoria di quanti li hanno conosciuti: ora sono in alto e stringono la mano agli arditi Angelo Zancanaro, Ciro Scianna, Enrico Picaglia e ai tanti sabotatori e incursori che, in ogni epoca, non hanno mai dimenticato le parole VALORE e SACRIFICIO.
Paolo Palumbo
(foto: Viviana Cariola)