Caro direttore, celebrare centocinquant'anni di storia di un corpo militare appartenente alla Marina Militare, significa mettere in mostra le proprie luci ma anche fare i conti con le proprie ombre. C'è chi sostiene che si apprende più da una sconfitta che da una vittoria e che solo chi è in grado di far tesoro delle lezioni apprese dalle sconfitte avrà la possibilità di vincere in futuro. Lo credo anche io che osservo tutti fenomeni collegati al mare e alla marittimità.
Ultimamente infastidito da troppa propaganda, forse anche per le titolazioni di viali e piazze alla Capitaneria di Porto in riva al mare, quasi a conquistare ed occupare spazi di suolo pubblico, ho iniziato a riflettere ponendomi alcuni quesiti su alcuni comportamenti professionali manifestati da alcuni appartenenti alla capitaneria di porto - guardia costiera, chiamati a garantire la sicurezza in mare, nei porti e che dovrebbe essere espressione dell'etica stessa del lavoro al servizio degli altri. Una ricerca continua di evidenza a mostrarsi marinai diversi da chi veste una stessa divisa, porta le stellette ed è un marinaio d'Italia o meglio presta il proprio servizio nella Marina Militare.
Verrebbe da obiettare ma qual è la differenza se anche esteticamente sono uguali alla Marina Militare?
Queste considerazioni, lungi dal denigrare l'utile lavoro dei molti componenti il corpo, le ritengo legittime soprattutto in un momento politico-economico in cui l'Italia tutta è alla ricerca di efficienza, taglio delle spese dovute a duplicazioni di funzioni. E' facile che i telegiornali siano pieni di parole lusinghiere nei confronti di chi soccorre e di questo non si discute, ma nel valutare i meriti dovremmo sempre aver presente anche i demeriti su questioni che anch'esse non dovrebbero essere dimenticate.
Siamo tutti felici di vedere che venga enfatizzato il lavoro ben fatto ma mi domando perché nello stesso modo non si punisce e si persegue il lavoro svolto male o la mancanza di cura nello svolgere il proprio compito. A ricordarcelo sono i parenti e famigliari delle 32 vittime della Costa Concordia il 13 gennaio 2012, delle sette persone rimaste uccise a seguito dell'incidente della Jolly Nero che ha buttato giù la torre di controllo nel porto di Genova, quel maledetto 7 maggio del 2014, oppure l'incendio in alto mare scoppiato a bordo di un mercantile greco il Normal Atlantic il 29 dicembre 2014, che ha evidenziato un certo limite nel garantire la sicurezza in mare e al quale si è rimediato intervenendo con mezzi navali e aerei idonei, sia della Marina che dell'Aeronautica.
Per il caso Concordia verrebbe da chiedersi perché se la centrale operativa delle Capitanerie di Porto- Guardia Costiera avevano sotto controllo la traccia radar della nave non hanno impedito che venisse fatto il famoso inchino.
Perché la Capitaneria di Porto che ha tra i suoi compiti la sicurezza in mare non si batte con forza per codificare a livello normativo il divieto di fare tale pratica di inchino sotto costa?
Come mai pur dovendo tutelare la sicurezza nei porti la Capitaneria di Porto - Guardia Costiera aveva una sua postazione operativa ubicata in una posizione pericolosissima nel porto genovese, posizione che ha contribuito al disastro?
Se in occasione del 150° anniversario del corpo, si ricordassero tali vicende e su di esse si aprisse un processo costruttivo di riflessione e di ritorno ad un comportamento etico del proprio lavoro, rispettoso davvero dei cittadini e lasciando da parte ambizioni di influenze politiche a vantaggio di una propria indipendenza rispetto ad un'istituzione di cui si fa parte, sarebbe sicuramente più utile per l'intero sistema paese. Utile lo sarebbe perché effettivamente si razionalizzerebbero davvero le spese, si eviterebbe di vedere incomprensibili mezzi di altura messi a disposizione di una componente che è invece chiamata ad operare sotto costa, duplicando ingiustificatamente le funzioni ed i costi, che sono attribuite a mezzi di altura della Marina Militare.
Insomma il pensiero critico induce a riflettere se non è meglio per il bene di tutti che si torni ad operare senza troppo rumore, umilmente al servizio degli altri. Accettare di essere una componente fondamentale, inquadrata quindi nella Marina Militare ben più articolata e complessa. Abbandonare la velleità di fare politica attraverso la costituzione di un sistema lobbistico forte e trasversale capace di soffocare qualsiasi pensiero critico e di opposizione a quanti progettano una guardia costiera indipendente dal dicastero della difesa. Velleità che si manifesta anche esteticamente se si va a vedere il rinnovato sito della Guarda Costiera, che dopo il 30 giugno 2015, nella nuova home page, rispetto alla precedente, vedeva sparire ogni riferimento
visivo e legame alla forza armata di appartenenza. Così i più esperti e forse, i più tecnici, noteranno anche che nell'indirizzo del sito i guardia coste sono passati sotto dominio gov.it (www.guardiacostiera.gov.it) che certo rende meno intuitivo e rapido la loro ricerca sul web in termini di usabilità, da parte degli utenti, che prima potevano digitare semplicemente www.guardiacostiera.it. Potrebbe sembrare una sfumatura, in parte lo è, ma in essa si cela l'affermazione di sentirsi parte indipendente e distaccata dalla Marina Militare, che non sembrerebbe essere poca cosa, vista anche la pressione con la quale si insiste per il distacco. Insomma i nostri nonni avrebbero detto <cui prodest?> (a chi giova?).
Lascio a lei direttore e ai lettori attenti della sua testata le deduzioni opportune. Da parte mia aggiungo che se ci tenessimo aderenti al concetto di sicurezza e difesa nazionale, in caso di realizzato distacco, né il dicastero della Difesa né quello degli Interni avrebbero molta pertinenza ad agire nei confronti della Guardia Costiera, che sarebbe un ulteriore forza di polizia diretta però dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Se non è anomalo questo, vorrei sapere cosa lo è?
Celebrare centocinquant'anni di onorato servizio è anche questo, riflettere sulla propria storia e fare i conti con i propri errori piuttosto che mostrare solo i propri successi.