Egregio Direttore, ho seguito le lo scambio di messaggi relativo agli episodi recentemente occorsi in Libano (la lettera dal titolo 'Se i soldati dell'esercito si nascondono e fuggono, che ne sarà di noi?' e la successiva risposta del Capo Ufficio Comunicazione di SMD) e non posso fare a meno di notare che, seppur con le migliori intenzioni, chi da una parte chi dall’altra continua a ‘mancare il bersaglio’.
In estrema sintesi si discute di ‘regole di ingaggio’ per dire che il nostro Paese non supporti abbastanza i militari nell’esercizio delle proprie funzioni (che sono svolte nell’interesse del Paese stesso), oppure della valenza che l’operato dei nostri militari ha (il nostro operato, essendo anch’io della famiglia) e l’apprezzamento che riceviamo all’estero ed in Patria. Quello che invece si dovrebbe fare è chiedersi se non stiamo sbagliando qualcosa nel sud del Libano.
Ci sono stato, ci ho trascorso cumulativamente quasi un anno e mezzo (diviso in due lunghi periodi di missione), a svolgere un incarico che ha a che fare con la ‘comprensione’ della situazione sul terreno, a contatto con la popolazione (includendo le milizie presenti in quella zona). In breve quello che abbiamo rilevato, con gli operatori e i colleghi (nel 2008,2009 e 2011) è che spesso i problemi ce li creiamo da soli.
Mi spiego: il Libano del Sud è di fatto una regione ‘a statuto speciale’ sia da un punto di vista di politica interna libanese che da quello della politica estera e internazionale. La missione UNIFIL è lì per assicurare la smilitarizzazione dell’area, la non-presenza di armi e sistemi d’arma e il rispetto degli accordi internazionali (p.e. il divieto di sorvolo). L’uomo della strada del Libano del sud mediamente conosce molto bene la risoluzione 1701 (forse per indottrinamento più che per cultura) e ci è capitato più di una volta di ricevere domande in merito, non richieste di chiarimento ma volutamente mirate ad accertare che noi fossimo a conoscenza. Pariteticamente, una delle osservazioni che ci veniva presentata con più frequenza era quella sul comportamento ‘invasivo’ dei militari di UNIFIL. Questa osservazione era tanto più frequente quanto più il contingente in questione era vicino alla NATO e alle missioni della NATO.
Quello che sto cercando di dire è che abbiamo riscontrato una tendenza dei libanesi a lamentarsi soprattutto dei contingenti di nazioni che contestualmente partecipavano ad altri conflitti. Le lamentele riguardavano soprattutto l’atteggiamento da ‘poliziotto di quartiere’ che i militari avrebbero avuto in quei contesti – per esempio andando a ‘ficcanasare’ in mezzo alle case (percepita come invasione della privacy) o effettuando pattuglie in zone urbane durante le ore notturne – un modus operandi tollerato in Afghanistan, intollerabile in Libano. Certo, si potrebbe argomentare che le lamentele erano volte a nascondere una qualche attività non lecita. La legittimità di certe nostre operazioni, in linea (o meno) con il mandato assegnato ad UNIFIL dalla UNSCR 1701 può essere discussa, l’opportunità (o la inopportunità) di certi (nostri) gesti è invece evidente.
Come ricordava giustamente il Capo Ufficio PI di SMD il Libano è un contesto difficile in cui la complessità deriva anche dalla evoluta struttura statale e parastatale che caratterizza la società. Non possiamo pensare di applicare tecniche, procedure e mentalità ‘Afghane’ in Libano. La nostra professionalità deve esplicitarsi nella capacità di capire il contesto in cui si opera, identificare i limiti ed operare sfruttandoli piuttosto che subendoli. La chiave è nella comprensione culturale più che nella capacità (pure importante) nel maneggio delle armi.
Una scimmia può sparare con un Kalashnikov, ma ci vuole un uomo (culturalmente intelligente) per negoziare soluzioni nel “difficile contesto”.
R.S.