Dove va la Corea del Sud?

(di Andrea Gaspardo)
30/03/23

La Corea del Sud è un paese di grandi contrasti. Se da un lato essa viene presentata come un esempio di successo, specialmente in relazione al suo ingombrante e minaccioso vicino settentrionale, grazie all'indiscutibile boom economico che essa ha vissuto negli ultimi 50 anni, dall'altra questo piccolo ed industrioso paese presenta delle fragilità a livello socio-demografico talmente evidenti da far pensare ad un acuto osservatore come il sottoscritto che il suo futuro sarà tutt'altro che roseo.

La miccia che il 15 marzo 2023 ha scatenato l'ennesima ondata di proteste, soprattutto da parte dei giovani e delle associazioni per la tutela delle donne è stata la proposta da parte del governo del presidente Yoon Suk-yeol di introdurre per legge in una nuova settimana lavorativa della durata di 69 ore. Ciò significherebbe che i sudcoreani sarebbero obbligati a lavorare per 13,8 ore al giorno nel caso lavorassero 5 giorni alla settimana oppure 11,5 qualora ne lavorassero invece 6. Basterebbero queste cifre a far urlare a squarcia gola persino un tedesco, ma nella realtà lavorativa della Corea del Sud tutto ciò già rappresenta la “normalità”, ed i suoi effetti sono tutt'altro che indolori.

Se noi dovessimo parlare a grandi linee dell'organizzazione del mondo del lavoro in Corea del Sud, allora dovremmo partire dicendo che nella “tigre asiatica” vi sono essenzialmente tre grandi categorie di lavoratori.

Al primo posto ed in una posizione decisamente privilegiata vi sono i dipendenti pubblici (e qui anche in Italia inizierebbero immediatamente a fischiare le orecchie!). In Corea del Sud la settimana lavorativa dei dipendenti pubblici dipende letteralmente da “quanto lavoro debba svolgere in un determinato periodo dell'anno la macchina burocratica dello stato” perciò essi alternano periodi iper-stressanti a periodi di inattività quasi assoluta. Sembrerà strano a noi occidentali oberati in ogni dove dalla asfissiante presenza dei “culi di pietra”, ma nei paesi asiatici in genere la macchina burocratica è assai snella per cui molte mansioni vengono svolte direttamente dai privati cittadini in completa autonomia grazie alle nuove tecnologie e ad efficaci procedure automatizzate.

Nella media i dipendenti pubblici lavorano assai meno dei lavoratori del settore privato, ricevono un salario stabile e, se lo desiderano, possono andare in pensione dopo aver lavorato solamente 20 anni. L'accesso al settore pubblico è molto competitivo e solamente 1 candidato su 100 viene ammesso, ma così stando le cose, rappresenta veramente un investimento per la vita! Tale è la pressione alla quale sono sottoposti gli studenti prima di svolgere l'esame di ammissione per le scuole dei burocrati (questi esami possono essere tentati dai sudcoreani una sola volta nella vita, subito dopo le scuole superiori!) che più di qualcuno si suicida, non riuscendo a reggere la pressione!

La seconda categoria, la più vasta, è quella che raggruppa i lavoratori a stipendio medio ed alto del settore privato. Questi lavoratori ricevono salari adeguati allo stile di vita in Corea del Sud ma sono sottoposti ad una pressione corporativa fortissima con turni massacranti che molto spesso eccedono le 70 ore settimanali. La ragione di tale stato di cose, improponibile per la maggior parte di noi occidentali è che in base alla cultura lavorativa della Corea del Sud è semplicemente impensabile per un dipendente di abbandonare il posto di lavoro prima che i suoi superiori se ne siano andati ed essi giocano proprio su questo punto per tenere ancorati i loro “schiavi” al posto di lavoro per diverse ore in più rispetto a quello che “sarebbe” il limite legale. Non solo, la competizione tra lavoratori è tale che “per dare il buon esempio” essi stessi decidono di rimanere al loro posto anche quando avrebbero invece il diritto (per non dire il dovere!) di tornarsene a casa e godersi un po' di meritato riposo.

Al terzo posto, infine, vi sono i lavoratori del settore privato che svolgono lavori sotto o mal pagati. Questa categoria è, per dimensioni, grande quasi quanto la seconda. La vita di questi uomini e donne è tale da tramutare ciascuno di noi in un acceso marxista-leninista. Il salario minimo di questi individui si aggira sui 10.000 won sudcoreani all'ora che equivalgono a circa 7 euro. Se questi sfortunati lavorassero, ipoteticamente, 8 ore, allora essi ricaverebbero 56 euro al giorno. Lavorando per 5 giorni alla settimana essi guadagneranno 280 euro, che per proprietà transitiva diventerebbero meno di 1300 euro al mese (se va bene!). Tuttavia il costo della vita in Corea del Sud è semplicemente insostenibile per salari di questo livello e i lavoratori della “terza categoria” devono ovviare lavorando necessariamente un maggior numero di ore e continuando anche nei fine settimana, letteralmente 7 giorni su sette per periodi prolungati fermandosi per due o tre giorni di fila una volta al mese quando raggiungono il completo esaurimento fisico. Decisamente non un tipo di vita che noi saremmo tentati di invidiare.

Dulcis in fundo, per avere il quadro completo è necessario ricordare che, la fine della giornata lavorativa non significa affatto che il lavoratore sia libero di tornare a casa. Quando infatti si chiudono le porte dell'azienda e si spengono le luci, la prassi aziendale prevede che dirigenti e lavoratori si stringano assieme nel rito collettivo dello “Hoesik” che potrebbe essere tradotto come: “stare assieme, mangiare assieme e bere assieme”.

Concepito come rito collettivo di rafforzamento del legame aziendale al di fuori del contesto lavorativo, lo “Hoesik” è diventato nel corso del tempo una sorta di “prigione” che sta contribuendo a fare a pezzi i legami famigliari in Corea del Sud, oltre ad essere il principale volano di altri fenomeni socialmente distruttivi come la crescita dell'alcolismo, l'abuso collettivo di droghe, gli stupri di gruppo e chi più ne ha più ne metta.

Il risultato finale è che il capitalismo selvaggio unito alle rigide consuetudini sociali di disciplina e abnegazione collettiva che caratterizzano un po' tutte le società dell'Estremo Oriente sta letteralmente incenerendo (per giunta ad una velocità sorprendente) le basi demografiche sulle quali si regge il sistema paese.

Unica tra tutte le società della Terra, quella sudcoreana presentava nell'anno 2022 un tasso di fertilità totale (TFR) di 0,78 figli per donna (!) e pare che il trend continuerà inesorabile la sua corsa verso il basso anche nel futuro.

Il dato fa ancora più impressione se consideriamo che, ancora nel 1960, il TFR delle donne sudcoreane era di ben 6,16 figli per donna e quell'anno nacquero 1,080,535 bambini, contro i soli 249,031 nati nel 2022 (poco più del 23% di quelli nati 62 anni prima!). Il risultato di questa pesantissima contrazione demografica è che negli ultimi tre anni, per la prima volta da che esistono le rilevazioni statistiche, la Corea del Sud presenta un saldo demografico negativo (-123.797 nel 2022) e la popolazione totale del paese, che nel 2020 ha raggiunto il picco di 51.836.239, ha da allora cominciato a calare. Ovvio è che in una situazione come questa, una qualsiasi società non può reggere, ed ancor meno rimanere competitiva.

Una simile situazione prevederebbe misure urgenti per risollevare la natalità e rendere le condizioni lavorative maggiormente accettabili e invece il governo sudcoreano sembra orientato al completo opposto.

Secondo i dati pubblicati dall'OCSE, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, nel 2021 i sudcoreani hanno lavorato in media 1915 ore (una media di 160 ore al mese) ovvero 200 ore in più rispetto alla media degli altri paesi sviluppati.

L'iniziativa del governo di rendere obbligatoria la settimana lavorativa di 69 ore avrebbe effetti ulteriormente deleteri sulla salute e psiche degli individui, sui legami famigliari e persino sugli istinti riproduttivi dato che, per pura logica, chi avrebbe voglia di “divertirsi sotto le lenzuola” dopo una giornata lavorativa di 11-13 ore obbligatorie, 2-3 ulteriori ore opzionali (ma de facto obbligatorie anch'esse), 2 o più ore di “Hoesik” obbligatorio e 1-2 ore di viaggio sui mezzi pubblici o in auto per tornare a casa?

A questo punto è necessario chiedersi: dove sta andando la Corea del Sud? Che tipo di modello socio-economico hanno in mente i suoi leader politici? Ed esiste qualche folle che vorrebbe replicarlo pure da noi?

Foto: Ministry of Culture, Sports and Tourism and Korean Culture and Information Service