Israele-Hamas: “la guerra è una severa maestra”

(di Germana Tappero Merlo)
12/02/24

“La guerra più disastrosa non è quella persa ma quella che delude”, recita un detto fra gli storici, perché non c’è vittoria militare sul campo che si possa definire tale se non ha raggiunto il suo obiettivo politico. Ed è la preoccupazione che incombe dal 7 ottobre scorso su Netanyahu, per il suo destino politico già seriamente compromesso da vicende personali antecedenti quell’11 settembre ebraico e dal fallimento, per quel sabato di sangue, nel suo ruolo riconosciuto da anni dai suoi elettori fedelissimi di “Mr Security”1.

Nell’aver sottovalutato o addirittura ignorato gli allarmi lanciati dalla propria intelligence interna e militare circa le intenzioni di Hamas, Netanyahu è caduto in pieno in quella trappola che, usando un termine proprio degli analisti di intelligence, è il mirror imaging, ossia ipotizzare, in una sorta di immagine speculare, che i tuoi avversari penseranno ed agiranno come faresti tu. In pratica, un peccato mortale di presunzione politica e strategica, con le conseguenze note in termini di costi umani e materiali, perché è ad essa che è stato ricondotto il fallimento dell’intera intelligence ebraica, con relativa mancata adeguata preparazione, laddove uno Stato potente militarmente come Israele non è riuscito a discernere la possibilità che i suoi avversari non-statali come Hamas, emblema sino ad allora della sola guerra irregolare, “si convenzionalizzassero in termini di tattiche operative”2. Ed ora, ad ondate di conquista del territorio gazano meridionale e parziale perdita, o anche solo complesso controllo militare, di quello settentrionale che si considerava conquistato (“denazificato”, stando alla terminologia d’uso ebraico), dove invece Hamas sta ripristinando alcune sue capacità prendendo in mano la gestione degli aiuti umanitari, è proprio sul concetto di vittoria che si sta interrogando il governo di guerra israeliano.

Netanyahu ha chiarito le sue priorità, sostenendo che la vittoria totale su Hamas è “a breve distanza”, promettendo altresì il “disarmo eterno” di Gaza mentre, sul destino dell’organizzazione di resistenza terroristica palestinese, ha aggiunto una metafora così chiara da apparire, e da tempo, quasi lapalissiana: “come si rompe il vetro in piccoli pezzi, e poi si continua a distruggerlo in pezzi ancora più piccoli e si continua a colpirli”3. Nessun tentennamento, quindi. Nessuna marcia indietro circa la convinzione che sia necessario l’annientamento militare di Hamas, a qualsiasi prezzo, persino degli ostaggi civili, almeno stando ai timori dei loro parenti, disposti ad accettare la sconfitta di Israele pur di riportare a casa i loro congiunti4.

Non è più tempo del solo “falciare l’erba” (dall’ebraico כיסוח דשא), una costante della politica di sicurezza di Netanyahu, ossia quella tattica militare di paziente logoramento, a fianco del blocco navale ed economico e i sistemi di difesa missilistici, dagli obiettivi limitati - come diminuire la capacità degli avversari di danneggiare Israele e realizzare così una deterrenza temporanea - ottenuti attraverso operazioni occasionali su larga scala. Tattica del “falciare l’erba” vista con le tre guerre di Gaza e la seconda in Libano, e connaturata nella dottrina Dahiya5 dell’ex capo di stato maggiore Gadi Eizenkot, presente nel gabinetto di guerra di Netanyahu. In pratica, una forma di guerra asimmetrica che approva l’impiego di una forza sproporzionata rispetto al nemico e prevede la distruzione delle infrastrutture civili al fine di fare pressione sui regimi ostili. Tuttavia, è stato proprio lo stesso Eizenkot a dichiarare “chiunque parli della sconfitta assoluta (di Hamas a Gaza) e la sua non volontà o capacità (di danneggiare Israele), non sta dicendo la verità”.

Al contrario di Israele, la vittoria finale non è certa una preoccupazione di Hamas. I suoi punti di forza risiedono nell’asimmetria ma soprattutto nella sua ambiguità. Usando la popolazione di Gaza come ostaggi, Hamas è stato a lungo in grado di minacciare l’indignazione morale se Israele la insegue veramente dove vive. Inoltre, ha già ottenuto successi, come diminuire l’immagine della portata del tanto decantato macchinario militare e di intelligence ebraico, evidenziando così un nuovo equilibrio di potere prima impensabile per i vertici politici ebraici. Inoltre, ha riportato alla ribalta internazionale la questione palestinese, a rischio di oblio perché da anni celata dallo schermo protettivo di uno comodo stallo nei rapporti fra leadership politiche, israeliana e palestinese, con un’ANP di un Abu Mazen non così dispiaciuto di uno status quo, traballante e certamente più favorevole alla parte ebraica, circa la precaria condizione del suo popolo e del suo territorio che vorrebbe come Stato di Palestina.

Una vittoria di Hamas che è anche e soprattutto di comunicazione: l’aver etichettato gli orrori del 7 ottobre come “resistenza”, usando quindi una parola che scuote le anime soprattutto quelle occidentali, e aver dominato una comunicazione informale di guerra, tra piattaforme social e campagne mediatiche ben gestite, hanno permesso ad Hamas di alimentare il rischio dell’oblio se non di un vero e proprio negazionismo di quella violenza di puro terrore, nelle modalità operative e divulgative a marchio Stato Islamico, perpetrata dai suoi aguzzini contro i civili dei kibbutzim e dei moshav del sud di Israele. Tutto ciò fa poi dimenticare che Hamas, e gli altri accoliti dell’Asse della resistenza a cui appartiene, hanno un unico obiettivo in mente, ossia la distruzione e l’eliminazione totale di Israele, e non – ed è bene evidenziarlo – la guerra per l’istituzione di uno Stato per i palestinesi.

Ma i successi di Hamas non finiscono qui; ad ora, infatti, si registra un prospero ritorno di un radicalismo religioso militante ed aggressivo di gruppi armati non-statali che va ben oltre quello che bombarda dai confini libanesi (Hezbollah) o dalle acque del Mar Rosso (Houthi), perché vi è ormai una sorta di chiamata alle armi per altri movimenti estremisti, dall’egiziano Tayyar al-Taghyir della Fratellanza Musulmana6 – vista anche l’emergenza profughi ai confini fra Gaza ed Egitto, appunto – sino a quello di singoli soggetti a rischio di emulazione, perché sensibili all’appeal di un jihadismo globale, da tempo in attesa di un fatto eclatante, dirompente, come lo è stato il 7 ottobre, che desse ispirazione e il via alla sua ennesima rinascita dopo la (parziale, al momento) sconfitta del sedicente Stato islamico. Senza contare, poi l’aumento esponenziale dell’antisemitismo in tutto il mondo7. Tutti fatti testimoniati e minacce percepite chiaramente dagli analisti e che non risparmiano l’Italia e la sua sicurezza interna8.

Ma la scommessa maggiore di questa guerra per Israele tutta, e non solo per il governo di Netanyahu, sta nel prendere consapevolezza del suo doversi confrontare nei concetti base fondanti, da un lato, la strategia di sicurezza nazionale e, dall’altro, la dottrina di sicurezza nazionale9. La prima è, di fatto, la visione del ruolo strategico, appunto, della sicurezza nazionale per la sopravvivenza stessa della nazione ebraica, le cui basi vennero definite dallo stesso David Ben Gurion. In pratica cinque componenti quali il vantaggio militare qualitativo convenzionale; la percezione della deterrenza nucleare; il rapporto speciale con una superpotenza; la superiorità tecnologica ed economica e, in ultimo, il focus nazionale, ossia lo Stato, la democrazia maggioritaria, lo spirito del popolo ebraico e la connessione tra Israele e la diaspora. In pratica, un memorandum dal valore eterno perchè pressoché costituzionale per una nazione, Israele, senza una Costituzione scritta.

La dottrina di sicurezza, invece, risente del momento e riflette chi è al potere e gestisce il Paese, ma che da sempre, per Israele, è stata caratterizzata da deterrenza, allarme rapido, difesa e decisione, tutti elementi, però, messi fortemente in discussione dai fatti del 7 ottobre e soprattutto indeboliti dai comportamenti dei vari esecutivi ebraici degli ultimi cinque anni: non è un caso, infatti, che Hamas, il più temuto fra i nemici vicini, a fianco di Hezbollah, abbia scatenato quella guerra nel momento forse più divisivo e frammentato dell’intera storia politica di Israele. Inoltre, e altro punto a favore di Hamas, Israele è a rischio di estremizzazione, con forte diminuzione di atteggiamenti liberali ed egualitari a fronte di maggior etnonazionalismo e spinta verso un conflitto globale contro tutti i suoi nemici. E paradossalmente sono proprio i vertici militari dell’IDF, con chiara visione del reale campo di battaglia, a mettere in guardia il loro premier dal rischio di minare la strategia di sicurezza nazionale nella sua totalità, in quei principi fondanti scritti allora da Ben Gurion.

Dove sta, quindi, la vittoria “a breve distanza” per Israele acclamata da Netanyahu? Forse nella distruzione di Gaza, ridotta già ora ad una moderna Dresda, nel tentativo di eliminazione o, meglio, sradicamento totale di Hamas, completando il ciclo proprio del premier israeliano di “dividere (i palestinesi di Gaza da quelli della Cisgiordania) e conquistare quelle terre”? Hamas, però, è un’ideologia e soprattutto un progetto, prima ancora che un movimento terroristico criminale. Difficile abbattere quelle ideologie e creare alternative politiche a breve: potrà sparire la sua leadership, ma le alternanze ci sono, e tante, con sigle differenti e magari stessi sponsor. E poi perché la storia di al-Qaeda e dello Stato Islamico, in questi lunghi anni di guerra al terrore, sono esempi lampanti di araba fenice, e in una guerra irregolare, fra soggetti così differenti (Stato vs attori non-statali) il successo e il fallimento sono polimorfi, a più livelli e su differenti scale temporali. E due decenni di lotta contro questo tipo di minacce asimmetriche (Afghanistan e Iraq su tutte) dovrebbero aver insegnato che la vittoria significa non solo il successo militare, ma vincere i cuori e le menti, isolare i violenti e raggiungere una pace duratura.

In definitiva, senza una prospettiva di soluzione politica fra Israele e le compagini moderate e soprattutto disarmate palestinesi, ci sarà sempre il rischio del riacutizzarsi di tensioni e il riemergere di fazioni armate, con l’inevitabile ripresa di operazioni ebraiche proprie del “falciare l’erba”.

Ecco che il rischio maggiore per questo governo di guerra israeliano è proprio quello di riportare a casa una vittoria deludente perché orfana dell’obiettivo politico strategico che, in fondo, è sempre quello, dal 1948, ossia la totale sicurezza e la sopravvivenza di Israele.

Ancora una volta, senza smentite e nelle parole di Tucidide, “la guerra è una severa maestra”.

5 La dottrina prende il nome dal quartiere Dahieh (traslitterato Dahiya) di Beirut, dove Hezbollah aveva sede durante la guerra in Libano del 2006.