Israele: tra risoluzioni ONU e nuovi fronti di guerra all'orizzonte

(di Gino Lanzara)
28/03/24

L’ultima rovente risoluzione ONU in merito al cessate il fuoco immediato nella Striscia di Gaza, riporta all’ennesima valutazione del flusso informativo su un conflitto cominciato ormai più di 5 mesi fa. Posto che la risoluzione ONU non ha valore vincolante, è presumibile attendersi che Tel Aviv non vi si uniformi, malgrado il messaggio politico che Washington ha inteso trasmettere a Netanyahu che, a fronte degli interrogativi ancora sul tavolo e riguardanti il conseguimento prefissato degli obiettivi circa l’annichilimento di Hamas e la programmazione politica del post conflitto, ha intinto la sua penna nel calamaio della pervicacia.

Come detto, a fronte di un conflitto ancora in pieno svolgimento, l’analisi di fonti ed avvenimenti non può cessare, tenuto conto peraltro che l’impatto prodotto assume carattere globale ed ampiamente in grado di contemplare molteplici connessioni estese anche verso Paesi relativamente distanti come Algeria e Marocco, anche perché gli stessi rapporti di forza devono considerare il fatto che le cosiddette milizie, disponendo di armamenti balistici, sono assurte ad un rango politicamente ed operativamente superiore rispetto a quello rivestito da organizzazioni a carattere eminentemente regionale.

Le operazioni belliche, pur se compiute nel ristretto ambito gazawi, hanno avuto la capacità di incidere sul preesistente ordine regionale e mondiale, a cominciare dal vicino Egitto, toccato duro dai mancati incassi dei dazi per i transiti attraverso il Canale di Suez e peraltro già penalizzato da una preesistente situazione economica particolarmente critica che sembra poter far presagire un collasso capace di destabilizzare ulteriormente l’area; una situazione che coinvolge anche la Giordania che, sul tormentato Mar Rosso, deve poter contare al più presto sulla ripresa del suo unico porto, Aqaba. Inevitabile riandare con il pensiero all’unica entità politica regionale in grado di stringere in una instability belt tutta l’area: l’Iran.

In questo contesto gli Houthi, perfetti proxy ed impeccabili interpreti terzi di proiezioni di potenza strategiche, altro non sono che portatori di messaggi chiari e ben indirizzati dall’egemone iraniano, interessato allo stravolgimento dell’ordine internazionale; così interessato da tentare di stringere in una morsa Israele anche dal nord libanese, agitato da Hezbollah, ennesimo proxy persiano.

Difficile, ma non impossibile, ipotizzare la prossima deflagrazione di un conflitto con la milizia di Nasrallah, un esito comprensibile per un Paese, Israele, condannato al mantenimento di una devastante ed indispensabile deterrenza con cui preservare sicurezza e sopravvivenza.

Vale la pena rammentare quanto dichiarato dalla presidente Meloni in merito a Houthi, Iran e Mar Rosso, durante le comunicazioni in Senato in funzione dell’approssimarsi del Consiglio Europeo; la presidente non ha mancato di descrivere gli attacchi portati nel Mar Rosso come parte di un disegno più ampio che coinvolge l’Iran, volto a sostenere, oltre gli Houthi, anche Hamas a Gaza e Hezbollah in Libano.

Se, per il momento, il 7 ottobre sembra essere passato o, meglio, accantonato, bisogna tuttavia pensare ad un possibile dopo, che tenga conto dei mutamenti politici intervenuti non solo su piano locale, ma globale, anche alla luce dell’irrisolta querelle sia degli ostaggi, tutt’ora detenuti da Hamas, sia di quanto commesso e documentato durante l’assalto iniziale. Insomma, rimanendo su un piano analitico delle fonti individuabili, al netto di valutazioni più strettamente cognitive, rimane un problema operativo di particolare rilevanza connesso alla conquista di Rafah in quanto ultima base delle forze residue di Hamas, presumibilmente attestate su circa 4 battaglioni. È ovvio che un’azione non risolutiva e che risparmiasse gli obiettivi strategici a Rafah inficerebbe, dal punto di vista di Tel Aviv, i vantaggi operativi conseguiti finora. Da considerare, comunque, l’impatto che un assalto israeliano produrrebbe su un agglomerato così densamente popolato e vicino al già sofferente Egitto, che potrebbe trovarsi a dover fronteggiare un’ondata biblica ed incontrollabile di rifugiati.

Da qui la comprensibilità della posizione americana, che tuttavia non ha indicato immediate e pratiche alternative, e che ha fatto sì che Israele non partecipasse ad un summit operativo a Washington con il contestuale stop alle negoziazioni di Doha che potrebbero invece portare in dote stabilizzazione e normalizzazione con Riyadh.

Gli attori sono dunque diversi e rilevanti, con Russia e Cina più che sullo sfondo; il complesso degli avvenimenti e delle conseguenti determinazioni fa presumere che ora anche un’operazione di de-escalation raffredderebbe la situazione riservando tuttavia alle generazioni una nuova e più violenta esplosione bellica cui Israele intende reagire riprendendo in mano il boccino di un’iniziativa strategica che non contempla soluzioni diplomatiche a due stati.

Foto: IDF / presidenza del consiglio dei ministri