Sudan, ovvero l’onda lunga della crisi

(di Enrico Magnani)
09/05/23

La crisi del Sudan, cade in un contesto regionale difficile e le cui prospettive sono al centro delle attenzioni di diversi attori, sempre alla ricerca di rinforzare le proprie posizioni e/o interessi.

Tutte le nazioni che circondano il Sudan, o che ne sono vicine, sono interessate a quello che succede a Khartoum anche se hanno i loro problemi...

Un fiume di problemi

Tra queste vi è l’Etiopia. Addis Abeba è appena uscita da una breve (2020-2022, sic) guerra civile con la regione del Tigrai, ma è sul bordo di una (o più) nuova insurrezione, come quella degli Oromo e addirittura la stessa Amhara, il cuore etnico e storico della medesima Etiopia.

L’Oromo, che aveva combattuto a fianco del Tigrai durante la guerra civile e aveva accettato gli accordi di pace tra Addis Abeba e Mekelle è rimasto insoddisfatto delle relazioni con il governo federale. Le tensioni crescono di nuovo pericolosamente (Oromo, Tigrai e la allora non ancora indipendente Eritrea erano stati il cuore della resistenza contro la dittatura militare comunista filosovietica del ‘DERG’ tra il 1974 e il 1991) rappresentando la fragilità dell’architettura istituzionale dell’Etiopia federale, dove gli stati sono realtà sostanzialmente semi-indipendenti, dotate di proprie forze armate, alcune molto forti, come dimostrato da quelle del Tigrai che erano arrivate a minacciare la stessa capitale federale nel novembre 2021.

Ma l’Etiopia ha anche tensioni esterne, a cominciare dai non ottimali rapporti con Gibuti, Somalia e il, non riconosciuto internazionalmente, Somaliland. Questi tuttavia possono sembrare piccola cosa rispetto alle tensioni con l’Egitto in merito alla GERD (Grand Ethiopian Renaissance Dam) sul Nilo Azzurro: enorme diga, i cui lavori sono iniziati nel 2011, al confine tra Etiopia e Sudan.

Lo scopo principale della diga è la produzione di elettricità per alleviare la grave carenza di energia dell'Etiopia e per l'esportazione di elettricità nei paesi vicini. Con una capacità installata pianificata di 5,15 gigawatt, la diga sarà la più grande centrale idroelettrica in Africa una volta completata, nonché tra le 20 più grandi al mondo.

Il progetto, che nasce negli anni ‘60 è diventato un altro snodo di una regione dove le tensioni si assommano pericolosamente e rischiano di saldarsi. Con il quarto riempimento annuale, previsto per giugno e la costruzione completata per circa il 90%, la GERD e la centrale idroelettrica sul Nilo Azzurro sembrano essere diventate un fatto compiuto. La costruzione della GERD e i problemi ad essa legati sono stati oscurati da vicende pure importanti, come il COVID-19, le ricorrenti ondate di siccità, la guerra civile tra Etiopia e Tigrai e la turbolenta transizione in Sudan, le costanti difficoltà del Sud Sudan e ora la guerra che oppone il generale Abdel-Fattah al-Burhan (capo delle forze armate sudanesi) e Mohamed Hamdan Dagalo "Hemetti" (capo delle forze di supporto rapido) che sono stati il capo e vice del consiglio di sovranità che governa(va) il Sudan.

Il clima già difficile è reso ancora più complesso da dichiarazioni destinate alle rispettive opinioni pubbliche per solleticarne i forti sentimenti nazionalisti e le negoziazioni - nonostante alcuni accordi per il dialogo finiti nel nulla, come il velleitario (e dimenticato) "accordo tripartito" del 2015 (‘Dichiarazione di principi sulla GERD’ co-firmata da Egitto, Etiopia e Sudan il 23 marzo 2015 a Khartoum) - almeno pubblicamente sono sospese.

Il Sudan, inizialmente dalla parte dell'Etiopia nella disputa, prima di passare all'Egitto, ora sembra essere tornato molto più vicino all'Etiopia (ma questo era valido sino all’esplodere della guerra tra i generali sudanesi, che ha rimescolato tutte le carte). Ciò è apparentemente in parte dovuto ai progressi dell'Etiopia e del Sudan nel risolvere le loro rivendicazioni rivali sulla fertile regione di confine di Al Fushqa. Il Sudan, avrebbe iniziato ad apprezzare il valore che la GERD potrebbe avere nel mitigare le inondazioni annuali lungo la sua sezione del Nilo e spererebbe di importare elettricità prodotta dallo sbarramento.

Non è del tutto chiaro, tuttavia, come l'esito degli attuali combattimenti in Sudan possa influenzare la sua posizione GERD e non si sa quale dei due vincitori (ammesso che ve ne sia uno in grado di farlo) potrebbe riaccendere le rivendicazioni sulla regione di Al Fushqa, facendo così deragliare qualsiasi intesa con l'Etiopia sulla GERD.

Il cambio di posizione di Khartoum in merito alla GERD aveva isolato l’Egitto che invece ci contava moltissimo, ma per il Cairo la diga con il controllo a monte che eserciterebbe sul flusso delle acque del Nilo è una situazione inaccettabile ed è percepito come una minaccia esistenziale a causa della sua quasi totale dipendenza dalle acque del Nilo.

Circa il 97% della popolazione egiziana di oltre 100 milioni di persone vive lungo il Nilo e dipende da esso come fonte di acqua dolce. Il Cairo è arrivato a minacciare azioni militari dirette sulla diga (e per questo un Sudan amico sarebbe fondamentale, così come un Sud Sudan).

Nonostante i seri problemi interni, l’Etiopia è andata avanti con i lavori per il completamento della diga, mostrando che anche per Addis Abeba la GERD è una questione esistenziale e per l’attuale governo etiope, provato dalla guerra civile, è necessaria sia come driver dello sviluppo che come segno della ritrovata normalità. Restringendo quindi i margini per un compromesso.

Secondo diversi esperti di problemi idrici, si potrebbero trarre grandi benefici se la diga di Assuan in Egitto e la GERD in Etiopia fossero gestite insieme. Ad esempio, visto che il bacino idrico della diga di Assuan, il lago Nasser, si trova a un'altitudine molto inferiore rispetto alla GERD, che ne è quattro volte più grande e l'evaporazione dal lago Nasser è molto più alta. Quindi avrebbe senso immagazzinare più acqua nella GERD che nel lago Nasser, rendendo più acqua disponibile per entrambi i paesi (e il Sudan).

Un accordo sulla condivisione dei dati che coinvolga Egitto, Sudan e Etiopia permetterebbe al Cairo e a Khartoum di avere maggiori certezze sui propri approvvigionamenti idrici (meglio sarebbe anche associare al meccanismo anche il Sudan del Sud, ove scorre il meno importante Nilo Bianco, che potrebbe contribuire a una più ampia collaborazione regionale, ma anche Juba ha i suoi problemi).

L'Etiopia, tuttavia, ha costantemente rifiutato di essere vincolata in alcun modo sulla gestione delle acque. Chiaramente il Nilo Azzurro, pur essendo una risorsa vitale che potrebbe potenzialmente fornire elettricità al 60% degli etiopi che ora ne sono privi, è anche una risorsa comune e vitale per tutti e tre i paesi. In luogo della avocazione esclusiva della gestione della diga, o di minacciare la sua distruzione, sarebbe più saggio (e ovvio) una gestione consensuale, ma le culture politiche prevalenti nelle classi dirigenti dell’area lasciano poco spazio all’opzione del dialogo.

Too big to fail?

Con i combattimenti che proseguono accaniti da tre settimane in Sudan, frenetiche consultazioni sono in corso a Gedda (Arabia Saudita) con un’azione congiunta statunitense e saudita.

Uno dei paesi più a rischio, come accennato, è l’Egitto: una delle zone degli scontri più duri tra esercito regolare e RSF è proprio il Darfur, che sebbene regione sudanese, è sempre stata una area di attenzione particolare per il Cairo. Il proseguimento degli scontri e la divergenza che sta emergendo tra Arabia Saudita e EAU, quali sostenitori dei due leader sudanesi contrapposti, è lo scenario peggiore per l’Egitto, in difficoltà economiche persistenti, ma aggravatesi da quasi un decennio fa, quando il Cairo ha intrapreso un ritmo di spese difficilmente sostenibile, basato su prestiti enormi con esborsi altrettanto enormi in armamenti, megaprogetti (il raddoppio del Canale di Suez e la nuova capitale). Durante questo periodo il ruolo dei militari nell'economia, si è molto accresciuto, specialmente attraverso la AOI (Arab Industrial Organization, il maggiore conglomerato industriale egiziano) ma anche attraverso una miriade di altre società arrivando al 40% dell’economia nazionale, disincentivando il settore privato e gli investimenti diretti esteri. La crisi del COVID ha dato un ulteriore colpo all’economia turistica del paese (il 12% del PIL) e si comprende che il Cairo guarda ansiosamente allo sfruttamento dei campi di idrocarburi nel Mediterraneo orientale (che tutta la ha obbligato a un impressionante rafforzamento delle sue forze navali, per proteggere queste aree da minacce esterne).

Da quando il presidente Abdel Fattah el-Sisi è stato eletto nel 2014, il debito estero dello stato è più che triplicato, arrivando a quasi 160 miliardi di dollari. Quest'anno, il 45% del budget egiziano sarà destinato al servizio del debito nazionale. Nel frattempo, l'inflazione si aggira intorno al 30% e i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati nell'ultimo anno di oltre il 60%.

L'anno scorso, l'Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti hanno trasferito all’Egitto 22 miliardi di dollari. Come per i precedenti salvataggi del Golfo, tuttavia, il sostegno non è riuscito ad arginare la crisi. Quindi, se già la precedente crisi politica che ha opposto Arabia Saudita e Emirati da una parte e Qatar dall’altra, è stata una iattura, una nuova divisione all’interno dei propri finanziatori, è visto come una sciagura dall’Egitto, a fronte di una situazione economica aggravata e il prolungamento della crisi sudanese potrebbe mettere il Cairo nella difficile situazione di dover scegliere tra uno dei contendenti (appoggiato da Riyadh o da Dubai) e, come conseguenza vedersi chiudere un flusso di aiuti indispensabili.

L’Egitto e il Fondo Monetario Internazionale (FMI) nel dicembre 2022 hanno firmato un accordo condizionale per un prestito iniziale di 3 miliardi di dollari in contanti e la prospettiva di ulteriori 14 miliardi di dollari in investimenti e finanziamenti regionali e internazionali, in cambio della libera fluttuazione della lira egiziana (che si è svalutata del 50%, che si assomma a quello precedente, arrivando all’80%) e la riduzione del peso dei militari nell’economia. Inoltre, come si è visto nella vicenda del Credit Suisse, l’Arabia Saudita comincia a essere meno generosa e i prestiti a fondo perduto devono considerarsi cosa del passato.

Il presidente maresciallo (continua a conservare il grado militare) appare comunque restio a smantellare la preponderanza militare sull’economia, visto che le forze armate sono la sua base di consenso.

L'Egitto deve già 23 miliardi di dollari al FMI e non è chiaro se sarà in grado di aderire alle dure (ovviamente) condizioni del Fondo e sinora vi sono poche indicazioni in ogni caso che Il Cairo stia cambiando il suo approccio alla spesa. Infatti a febbraio l'Egitto ha emesso 1,5 miliardi di dollari in obbligazioni che pagano un interesse dell'11%, con l’obiettivo di ripagare il proprio debito in eurobond, il cui tasso di interesse era solo del 5,57%. Quindi, anche se l'Egitto sta prendendo prestiti dal FMI, ma sta accumulando più debito, entrando sempre più in un tunnel di cui non si vede la fine e le difficoltà della popolazione si riflettono sull’incremento del numero di migranti illegali egiziani che vengono registrati dai paesi di accoglienza dell’UE.

Le opzioni egiziane sono ridotte e difficili sia da scegliere che da mettere in pratica. In primis lavorare intensamente per una soluzione pacifica della crisi sudanese che gli eviti di scegliere tra i padrini di Abdel-Fattah al-Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo "Hemetti", e mantenere il flusso di aiuti finanziari dal Golfo, anche se si ridurranno comunque; oppure prendere l’esempio di Gheddafi con l’Italia e usare la minaccia di una grave crisi economica e sociale con conseguente flusso di migranti verso l’Europa e avere una grazia economica e politica (in merito alla questione delle libertà civili interne), ma le relazioni con Bruxelles diventerebbero comunque più fragili; cercare di evitare a ogni costo che Addis Abeba ponga in essere la gestione solitaria della GERD e sfuggire a una possibile siccità e un peggioramento della crisi sociale interna che potrebbe diventare incontrollabile; l’opzione dell’uso della forza, se consoliderebbe il sostengo popolare all’establishment a breve termine, nel medio e lungo termine diventerebbe ingestibile; o ancora, usare questa minaccia verso i padrini politici propri e di Addis Abeba e evitare uno scenario di crisi, sempre sventolando la minaccia di movimenti di popolazioni epocali verso l’Europa (la popolazione egiziana è di oltre 100 milioni) a causa della siccità che la diga porterebbe sul basso Nilo.

L’altro corno della crisi

Come per l’Egitto, il paese che più ha da perdere per un prolungamento e un avvitamento della crisi sudanese, è il Sud Sudan: secondo le stime dell'UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), nei prossimi tre mesi dovrebbero arrivare tra 125.000 e 180.000 sud sudanesi e 45.000 sudanesi, in un paese che si sta ancora riprendendo da una guerra civile mortale.

Dal 1956 Sudan e Sud Sudan sono stati la stessa nazione e - nonostante la secessione del 2011 - molti sudsudanesi vivono ancora dall'altra parte del confine, in quanto rimasti anche dopo l'indipendenza del Sud Sudan o fuggiti dalla guerra civile scoppiata nel 2013.

Secondo l’UNHCR, il Sudan ospita oltre 800.000 sud sudanesi. Più di un quarto di loro vive nei campi rifugiati, in particolare nello stato federale sudanese del Nilo Bianco. Il resto è concentrato a Khartoum e nelle maggiori città, dove spesso viene utilizzato come manodopera a basso costo.

Tra il 15 e il 27 aprile, circa 15.000 persone hanno attraversato il confine dal Sudan allo stato sudsudanese (che è una repubblica federale) dell'Alto Nilo. L’UNHCR vuole evitare a tutti i costi la creazione di campi di rifugiati (siano esse di sudsudanesi o sudanesi) nello stato del Nilo Bianco in quanto inospitale e privo di infrastrutture e sta cercando di avviare un piano di trasporto fluviale sul Nilo, vista l'imminenza della stagione delle piogge e lo stato impraticabile delle strade nella zona di confine. L'interruzione dei servizi umanitari da parte del sistema delle Nazioni Unite in Sudan (UNHCR, WFP, UNICEF in particolare), rischia di accelerarne la partenza e il Sud Sudan che già non è in grado di assorbire questi massicci flussi con il 75% della sua popolazione dipende ancora dagli aiuti umanitari internazionali.

Ma i problemi per Juba (la capitale del Sud Sudan) non si limitano a questi, pur difficilissimi. La situazione è tanto più critica perché l'accordo di pace firmato nel 2018 tra le fazioni sud sudanesi rimane fragile e la guerra civile che oppone le due maggiori etnie del paese, i Dinka e i Nuer* iniziata appena ottenuta l’indipendenza, di fatto non è mai finita.

Il Sud Sudan dovrebbe tenere le prime elezioni della sua storia alla fine del 2024, ma la crisi di Khartoum potrebbe permettere alle fazioni rivali di ignorare le scadenze e le promesse fatte sia verso la comunità internazionale che all’interno. Il collasso sudanese rischia di fare perdere al processo di pace del Sud Sudan il suo garante regionale più influente. Nessun altro paese vicino può essere in grado di esercitare pressioni sui leader sud sudanesi come Al Burhan e Hemeti (in particolare quest’ultimo si è speso assai nel mediare tra le frazioni tribali).

È anche possibile che la lotta di potere che coinvolge Salva Kiir, il presidente del Sud Sudan, Riek Machar, il primo vice presidente (e suo principale avversario sia politico che etnico, in quanto Kiir e un Dinka e Machar è un Nuer), possa esplodere nuovamente in conflitti armati pesanti (perché le scaramucce tra le forze dei due, come già accennato, sono costanti).

La guerra nel Sudan, se dovesse durare, avrebbe anche gravi conseguenze economiche per il suo vicino, dal momento che i due Sudan si spartiscono i proventi del petrolio, che viene prodotto nel Sudan meridionale ed esportato attraverso un oleodotto oltreconfine a Port Sudan sul Mar Rosso (senza contare il futuro della aggiudicazione della zona di Abiey, ricca di idrocarburi). Un'interruzione del trasporto di greggio per motivi di sicurezza (o problemi di manutenzione) priverebbe Juba di quasi tutti i suoi introiti e questo spiega l’attivismo di Salva Kiir per una soluzione negoziata (o almeno garanzie sul flusso di idrocarburi, in quanto questo blocco dei flussi energetici, e l’ovvia crisi che ne seguirebbe, sarebbe una arma in mano a Machar per cercare di contrastare l’egemonia dei Dinka).

L’osservatore silenzioso (per ora)

Il basso profilo della Cina sinora mantenuto in merito alla crisi sudanese, nonostante i legami cinesi di lunga data con la nazione nordafricana, rafforzatisi nel corso della lunga dittatura del dittatore Omar El Bashir, e gli enormi investimenti, dovrebbe far riflettere.

Due alti diplomatici cinesi, l'allora rappresentante speciale per gli affari africani Zhong Jianhua e il rappresentante permanente presso l’ONU Wang Guangya, hanno convinto El Bashir ad accettare il dispiegamento delle forze di pace delle Nazioni Unite e dell'Unione Africana nel 2006, la controversa UNAMID (United Nations – African Union Mission in Darfur. Successivamente Pechino ha facilitato un complicato processo che ha portato a colloqui tra le fazioni contrapposte nella guerra nel Sud Sudan nel 2013.

Alcuni osservatori ritengono che la Cina possa tentare di ripetere il suo ruolo negli sforzi per porre fine alla guerra civile in Etiopia, tra governo federale e quello del Tigrai, organizzando una conferenza di pace nel Corno d'Africa nella capitale etiope, convocata dal suo inviato speciale nella regione, sostenendo gli sforzi di mediazione dell'Unione Africana, ma senza svolgere un ruolo diretto nei negoziati tra le parti.

Analogamente alla crisi attuale, Pechino è stata ai margini delle ripetute crisi sudanesi, come la prolungata guerra civile nord sud e crisi del Darfur. Questa ambigua posizione, che appare contrastare con l’intrusiva politica della Cina nel continente africano, in realtà lascia intravedere che Pechino considera il Sudan (e il Sudan del Sud**) per la loro posizione geografica e le potenzialità assai importanti per il capitolo africano della BRI (Belt and Road Initiative), un atteggiamento prudente per non accendere ulteriormente timori e sospetti di Europa e USA (e anche Russia, oramai il junior partner, ma che non deve condurre iniziative se non strettamente coordinate con il partner maggiore della alleanza).

Società quali China National Petroleum Corporation, China Three Gorges Corporation e China International Water & Electric Corporation, hanno ingenti investimenti nel petrolio, nell'energia e nelle costruzioni; tuttavia, lo status del Sudan come esportatore di petrolio si è ridotto rispetto ad alternative come l'Arabia Saudita, in quanto la maggior parte dei giacimenti petroliferi si trova ora nel Sud Sudan con oleodotti che passano attraverso il territorio sudanese, ma la produzione complessiva è solo una frazione delle importazioni globali della Cina.

Se i combattimenti prenderanno di mira le infrastrutture petrolifere del Sudan, che sono ancora necessarie per trasferire il petrolio del Sud Sudan sui mercati internazionali, allora la Cina potrebbe essere costretta a essere maggiormente coinvolta poiché i suoi interessi economici saranno minacciati. È una possibilità, visto che gli inviati dei due contendenti a Gedda, hanno detto che la tregua in corso (in realtà non c’è) ha solo fini umanitari e non di dialogo e che entrambi puntano all’annientamento dell’avversario.

Proprio gli stretti legami con il deposto dittatore El Bashir potrebbero rendere difficile per Pechino posizionarsi come "arbitro neutrale" in qualsiasi processo di pace (senza contare l’ostilità degli occidentali) e, probabilmente, aspetterà fino a quando non emergerà una chiara configurazione di potere a Khartoum, tentando quindi di lavorare con un nuovo governo per preservare la posizione e i contratti precedenti.

Quando divenne chiaro che il dominio di El Bashir era finito, la Cina stabilì rapidamente contatti con i due generali al centro degli attuali combattimenti - Al-Burhan e Hemeti - e si rivolse anche ai leader civili in un governo democratico di transizione che militari e RSF, allora alleati, hanno rovesciato con un colpo di stato del 2021.

La Cina ha mantenuto una linea aperta a tutti nel tentativo di non essere colta alla sprovvista nel caso in cui gli eventi dovessero cambiare improvvisamente come è avvenuto in Zimbabwe, come nel caso della cacciata del defunto leader Robert Mugabe nel 2017.

La crisi in Sudan ha messo in luce i limiti delle "Prospettive di pace e sviluppo nel Corno d'Africa" della Cina - un progetto che il presidente Xi e il capo della politica estera Wang Yi hanno detto potrebbe aiutare a mediare e risolvere i conflitti transfrontalieri e interni quando è stato lanciato all'inizio dello scorso anno.

Conclusioni

Il proseguimento degli scontri, la frenetica attività di influenza intorno al Sudan e il potenziale impatto di questa crisi (anche al di là della regione) fanno comprendere che sono in gioco molti più equilibri ed interessi di quelli che superficialmente appaiono.

* I Dinka sono il più grande gruppo etnico del Sud Sudan, formando circa il 36% della popolazione. I Nuer sono il secondo gruppo etnico (16% della popolazione), entrambi neri, divisi da una feroce rivalità tribale e sono rimasti uniti solo nella comune ostilità verso gli arabi del Sudan, che ha dominato quelle regioni dal 1956, finita la colonizzazione inglese.

** Pechino, come suaccennato è anche presente nel Sud Sudan dove è cinese l’unico vice rappresentante (con funzioni politiche, visto che la missione ha molte funzioni oltre che il controllo della stabilità militare e la protezione delle popolazioni civili) del Segretario Generale dell’ONU in una missione di peacekeeping, proprio l’UNMISS in Sud Sudan, Guang Cong, interrompendo una tradizione che limitava queste funzioni a diplomatici ed esperti occidentali.

Immagine: Google Maps