Il 3 gennaio è morto un nemico, è nato un martire

(di Giuseppe De Giorgi)
03/01/20

Che il maggior generale Iraniano Qasem Soleimani, dal 1998 comandante della Quds Force responsabile delle operazioni clandestine all’estero di Teheran, specializzata in guerra asimmetrica fosse un pericolo per gli Stati Uniti non è in dubbio. Il punto è che il gen. Soleimani rappresentava una minaccia da almeno 15 anni. Quindi perché assassinarlo proprio adesso insieme con il suo comandante in seconda e quali finalità politiche e militari hanno determinato la decisione del presidente Trump?

Il segretario di Stato Pompeo ha detto oggi in un’intervista alla CNN, che la decisione è stata presa su segnalazione dell’intelligence americano per impedire un attacco imminente a obiettivi statunitensi in Medio Oriente e per proteggere vite americane. Le conseguenze di tale uccisione potrebbero tuttavia essere devastanti per gli interessi e la sicurezza degli americani in Golfo Persico e verosimilmente anche al di fuori.

Per inquadrare la portata dell’eliminazione di Soleimani rispetto all’uccisione di Osama bin Laden basta considerare che quest’ultimo non rivestiva una posizione ufficiale all’interno di una Nazione, ma era il capo in fuga da anni di un’organizzazione terroristica.

L’ultima volta che gli Stati Uniti hanno ucciso un capo militare è stata durante la seconda guerra mondiale, quando il presidente Roosevelt, informato dall’intelligence aveva disposto di uccidere l’ammiraglio giapponese Yamamoto abbattendo il suo aereo in un’imboscata. La differenza è che gli Stati Uniti e il Giappone erano in guerra. L’Iran e gli USA no, almeno non ancora.

La decisione di Trump avrà delle conseguenze certamente destabilizzanti di ampia portata non solo nei rapporti con Terhan ma anche con il governo Iracheno che vive con crescente difficoltà la presenza delle truppe USA sul suo territorio.

Le manifestazioni di piazza e gli attacchi all’ambasciata USA di Bagdad dimostrano come l’accettazione della presenza straniera sia sempre più precaria. L’azione americana condotta il 3 gennaio arriva dopo mesi di passività degli USA in Medio Oriente e in Mediterraneo. Basti pensare alla decisione di abbandonare la Siria al controllo di Turchia/Russia, i Curdi al loro destino, di non intervenire dopo lo spettacolare attacco di droni alla raffineria di Buqyaqin Arabia Saudita, all’abbattimento di Droni USA nello stretto di Hormuz, mantenendo un basso profilo in occasione delle ultime provocazioni di Kim Jon- un e l’assenza dalla scena libica.

Vista l’importanza del generale ucciso, le conseguenze potrebbero estendersi oltre il Golfo Persico, in Mediterraneo, in Siria e in Libia, ad esempio mettendo in ombra la crisi libica in attesa delle mosse Iraniane, lasciando di fatto maggiore libertà d’azione alla Turchia nell’inserire truppe regolari a sostegno di al-Sarraj e alla Russia di muoversi in modo più aggressivo.

La speranza è che la decisione di Trump faccia parte di una strategia complessiva di ampio respiro che abbia previsto come contenere le inevitabili ritorsioni Iraniane, la destabilizzazione ulteriore dell’Iraq, del Golfo Persico, dello Yemen etc. e che non sia invece una mossa finalizzata a ribaltare l’immagine di un presidente distratto o addirittura debole in politica estera all’avvicinarsi delle elezioni presidenziali. La storia è ricca di esempi di decisioni azzardate in politica estera per rafforzare il consenso del popolo tramite l’orgoglio nazionale e il mito della Patria in pericolo. Potrebbe funzionare. Ma a quale prezzo?

Intanto, da oggi la causa sciita ha un nuovo luminoso martire.

Foto: IRNA