Diceva Lenin che "ci sono decenni in cui non succede niente e settimane in cui accadono decenni". Questo è il caso di quanto sta avvenendo in Medio Oriente, con Israele che ha spazzato via l'intero quadro dirigente di Hezbollah in pochissimi giorni ed è entrata in forze in Libano, provocando anche la reazione dell’Iran, che ha lanciato missili balistici contro le città dello Stato ebraico.
C'è una cospicua fetta di persone nei circoli politici e militari israeliani che ritiene questo il momento più adatto non solo per rintuzzare le velleità delle varie formazioni costituenti il cosiddetto "asse della resistenza" (Iran, Hezbollah, Hamas, Houthi, guerriglieri sciiti in Iraq e Siria), ma per assestargli un colpo mortale. Questo aumenta le possibilità che Israele voglia colpire direttamente anche l'Iran, oggi indebolito.
L'opzione militare contro l'Iran è oggi una strada perseguibile, benché non trovi il sostegno pieno degli Stati Uniti, che di Gerusalemme rappresentano il principale alleato. Ma è proprio da quelli che sono considerati errori nella politica di "contenimento" dell'Iran attuata dagli USA, principalmente attraverso le sanzioni economiche, che si sta alimentando l'idea di colpire manu militari il regime degli ayatollah.
È stato pubblicato sul periodico statunitense "The National Interest" un articolo nel quale si legge che "una giustificazione comune per mantenere la guerra economica contro l'Iran è che anche se tale pressione non induce i leader iraniani a cambiare le loro politiche, riduce le risorse che l'Iran ha per agire su tali politiche. Tuttavia, come ha dimostrato il confronto della condotta iraniana prima e dopo l'inizio della massima pressione, tali limitazioni di risorse non impediscono all'Iran di fare molte delle cose che potremmo desiderare che non facesse", come, ad esempio, investire sul nucleare per provare a costruire la propria bomba atomica o finanziare e sostenere le sue milizie proxy in Medio Oriente.
Quella che Cecilia Sala ha definito su “Il Foglio” come una “assicurazione sulla vita” per l’Iran, cioè la presenza minacciosa al confine settentrionale israeliano di Hezbollah, con le sue milizie ed il suo arsenale missilistico, è stata annichilita dalle operazioni dei servizi di sicurezza e dalle bombe dell’Israeli Air Force. Ma nel corso degli anni, Hezbollah era stata l’esempio lampante di come Teheran riuscisse ad alimentare, dal punto di vista finanziario, logistico e militare, minacce importanti per Israele, determinando la gradazione delle reazioni dell’IDF e del governo di Tel Aviv proprio in funzione della pericolosità del Partito di Dio libanese.
L'inefficacia delle sanzioni economiche pure e semplici nell'influenzare le scelte di politica estera di Teheran, è una delle principali critiche che vengono mosse ai sostenitori del "containment" da parte di quelli dell'intervento militare. Nonostante molti tra gli analisti di scuola realista sostengano che il premier israeliano Benjamin Netanyahu – tirato per la giacchetta dalla destra religiosa e messianica – non stia seguendo una strategia chiara, ma che Tel Aviv stia procedendo alla cieca, va evidenziato come lo Stato ebraico dopo il 7 ottobre 2023 non avesse alternative diverse dall’invasione della Striscia di Gaza per sconfiggere Hamas.
L’estensione delle operazioni militari da Gaza al Libano rappresenta, invece, il passaggio da una strategia “di costrizione” – ove si faticava ad intravedere come Israele avrebbe potuto gestire non solo Gaza ma la questione palestinese più in generale – a un progetto di riequilibrio geostrategico in Medio Oriente, cercando di sfruttare il vantaggio offerto dal dispiegamento del “livello più alto della violenza”. Sotto questo aspetto, l’invasione di Gaza e quella del Libano, così come i bombardamenti in Yemen e Siria, costituiscono parte di una escalation misurata nei confronti della Repubblica islamica dell’Iran, che continua a rappresentare l’obiettivo principale per Tel Aviv.
Si tratta di una logica vicina a quella del “neorevisionismo” sionista, che ha influenzato per buona parte della sua storia la politica estera del Likud, che dalla costante situazione d’emergenza in cui lo Stato d’Israele ha vissuto fin dalla sua fondazione ha tratto linfa vitale per la propria dottrina della stabilità irraggiungibile.
Tuttavia, il nuovo corso della strategia israeliana si distanzia dal “neorevisionismo”, che di Netanyahu era stato il paradigma politico, per l’idea secondo cui la stabilità regionale possa effettivamente essere raggiunta, dopo aver privato l’Iran dei suoi alleati e ridotto di gran lunga l’influenza degli ayatollah, costruendola sui pilastri degli Stati facenti parte degli Accordi di Abramo e con una evidente primazia di Israele.
Foto: IDF