La guerra contro i reperti storici dell’antichità dichiarata dallo Stato islamico, è parte di una codificata e sistematica campagna di annientamento culturale. Quell’appetito, che appare insaziabile, nel distruggere siti e manufatti inestimabili, è molto ben più strutturato ed organizzato di quanto si possa credere perché la vendita illecita delle antichità garantisce un flusso economico costante, nonostante gli sforzi internazionali per arrestare il traffico dei tesori al mercato nero. Motivo per cui se da un lato assistiamo, impotenti, alla distruzione del Tempio di Baalshamin, situato all'interno delle maestose rovine del deserto di Palmyra, dall’altro siamo assolutamente certi che la struttura è stata saccheggiata di qualsiasi cosa custodita al suo interno prima di essere rasa al suolo.
Secondo l’ideologia dello Stato islamico, che controlla vaste aree dell'Iraq e della Siria, luoghi che ospitano alcune delle rovine più preziose del Medio Oriente, la distruzione di queste opere è una campagna contro il paganesimo e l'idolatria, anatema per la sua interpretazione radicale dell'Islam. Il Tempio di Baalshamin, per esempio, è consacrato a un dio della tempesta Phonician.
La scorsa settimana, i militanti hanno utilizzato un bulldozer per fare a pezzi il Monastero di S. Elia, in Siria centrale, che custodiva le spoglie del santo e che, in passato, è stato un importante luogo di pellegrinaggio cristiano. La distruzione delle antichità è uno schema ormai ricorrente.
Il saccheggio avvenuto lo scorso febbraio al museo di Mosul, la seconda città più grande dell'Iraq, è stato motivato dai fondamentalisti come una missione contro il glorificato politeismo.
Quello che i terroristi non dicono, però, è che il commercio illegale delle opere legate all’antichità, è fonte preziosa per garantire l’asset dello Stato islamico. Ecco perché, allora, sarebbe opportuno non credere a tutto quello che proprio i fondamentalisti propinano sulla rete, con quei messaggi che celano la verità.
Lo Stato islamico che pubblicamente si mostra come un gruppo pronto a radere al suolo ogni struttura museale del passato, ha invece mostrato estrema cura nel catalogare tutti i reperti contenuti nei siti archeologici conquistati ed un’attenzione maniacale nei dettagli. Il perché è facilmente intuibile: lo Stato islamico è perfettamente cosciente del valore monetario di queste opere ed i dollari del mercato nero, esulano da ogni appartenenza religiosa o credo.
Sappiamo, per esempio, che lo Stato islamico ha istituito “l'Ufficio per le questioni minerarie”, che annovera i responsabili dell’analisi delle rovine e dei manufatti custoditi dentro i musei. Pubblicamente, quindi, assistiamo alla devastazione delle opere ritenute offensive per l’Islam (secondo la visione dell’Isis), definito come non solo lecita, ma anche spiritualmente giusta. Un’abile propaganda senza dubbio che mira alla distruzione pubblica del patrimonio universale. Ma lo Stato islamico, distrugge tutto quello che non può vendere. Un tempio non si può acquistare. Una chiesa non si può mettere all’asta. Una statua alta come un palazzo non può essere trasportata. Motivo per cui tutto quello che non si può vendere si distrugge, trasmettendo un senso di impunità di fronte alla indignazione internazionale.
Una distruzione, quindi, che riguarda soltanto gli oggetti tracciabili. Basti pensare che soltanto dalla vendita dei reperti custoditi nei pressi di un monastero a nord della Siria, i terroristi hanno guadagnato 36 milioni di dollari.