"Il Signor Parolini" (quarta parte)

(di Gregorio Vella)
01/02/18

Trascorsero parecchi giorni nella ripetitività delle cose, vedendomi con Parolini solo di sfuggita.

Lo incontrai una mattina presto, al cratere.

Il cratere era una grande voragine artificiale, di forma circolare e scavata apposta in una piccola radura senza alberi. Serviva a bruciare in sicurezza e periodicamente, tutto l’esplosivo di lancio che sopravanzava dai campionamenti per i saggi di stabilità e dagli sconfezionamenti di verifica del vario munizionamento.

Anche per questa attività la procedura era rigida e ripetitiva.

Stavo imparando che lavorare con il munizionamento e con gli esplosivi, impone assolutamente di acquisire una forma mentale rigida e ripetitiva, è una regola che non ammette deroghe. Nulla deve essere lasciato all’improvvisazione, né e tantomeno al caso. Ogni cosa, anche la più banale, la si deve fare esattamente per come è prescritto che venga fatta, imparandola bene, eseguendola con ordine, senza premura e senza saltare nessun passaggio. Sarà opinabile ma credo sia vero, che ci sono aspetti caratteriali o doti naturali che nelle persone si presentano in forma più o meno accentuata in funzione della loro estrazione geografica. Infatti non è un caso che i migliori cannonieri di Marina, per capacità ed affidabilità, sono i sardi, per i quali è proverbiale l’indiscutibilità degli ordini e l’assoluto e ferreo rispetto per le consegne.

Ricordo che qualche settimana prima mi trovavo all’Officina Caricamento e Capo Filigheddu aveva “requisito” un flacone quasi vuoto di alcol denaturato che si trovava, forse da anni, dentro una cassetta per le medicazioni; spiegando che il comma tale dell’articolo talaltro, vietava tassativamente l’introduzione di bevande alcoliche. Gli fu obiettato che l’alcol era denaturato e stava lì per pulire eventuali ferite; al che Filigheddu obiettò, amabilmente serio e nella sua simpatica cadenza sarda; "si, ma chi me lo dice che non se lo bevono lo stesso". Può far sorridere, ma ero d’accordo con Parolini, quando diceva che se uno deve partire per la guerra è meglio che lo faccia con gente così.

Parolini assieme a Brentani, in fondo al cratere avevano svuotato alcuni contenitori di alluminio, formando un serpentone di una diecina di metri di roba varia: esplosivo di lancio di diversi calibri, tutto in spaghetti, tubicini, cilindretti a sette fori, piccoli, grossi, verdastri, gialli, neri, bianchi ed anche ritagli di celluloide che avanzavano dalla fabbricazione dei tappi combustibili delle cariche da 127/38. Parolini, inserito il micciotto rigido, aveva fatto allontanare Brentani e gli aveva dato fuoco all’estremità, allontanandosi anche lui con calma, fino a raggiungermi a ridosso dell’orlo del cratere, dove erano presenti anche due sottufficiali, quali membri della Commissione che avrebbe rendicontato, verbalizzando la distruzione del materiale.

Le vampe rossastre si levavano alte per parecchi metri, bruciando in fretta il materiale e cambiando di intensità, vivacità e colore con la sequenza del tipo di esplosivo con il quale il serpentone era stato formato.

  • Vede - mi diceva Parolini - quello che vediamo bruciare così in fretta, se lo chiudiamo dentro un bossolo tappato da un proiettile e gli diamo fuoco con un innesco, brucia ancora più in fretta, talmente in fretta che deflagra, producendo gas a pressioni talmente elevate che sparano il proiettile, che esce dalla canna a quasi mille metri al secondo. E’ cellulosa, come la legna che brucia nel camino di casa; solo che è stata nitrata. Diventando nitrocellulosa ha dentro di se tutto l’ossigeno che gli serve per bruciare. La legna nel camino, per bruciare, l’ossigeno lo deve prendere dall’aria e quindi ci mette di più; così un chilo di legna ed un chilo di nitrocellulosa, bruciando liberano pressappoco la stessa quantità di energia solo che la legna lo fa in dieci minuti mentre la nitrocellulosa, se è ben chiusa ci mette solo qualche centesimo di secondo. Gregorio, se mi permette le faccio una domanda. Se le dico di riflettere su quali sono le attività economiche della nazione, qualora malauguratamente fossimo in tempo di guerra, cosa le viene in mente?

  • Beh, la cosa che mi viene da pensare è lo sforzo che deve fare la nazione per creare l’industria per fare la guerra o per convertire alcune produzioni industriali alle esigenze belliche. Anche nell’antichità e penso un po’ ai romani ed a quante lance, frecce, spade e scudi hanno dovuto fabbricare prima di partire per andare a fare l’impero, ma anche a quanti aerei, carri armati, navi e roba varia, hanno fabbricato i belligeranti per prevalere durante l’ultimo conflitto.

  • Proprio così. Ma se è chiaro ed evidente il rapporto che c’è tra l’industria e la guerra, non è così per l’agricoltura. La prima cosa che verrebbe da pensare è che in tempo di guerra anche le attività agricole vanno intensificate ed ottimizzate con le poche braccia disponibili, per sfamare la nazione in autarchia e produrre gli alimenti per nutrire i soldati al fronte. Ma c’è un settore agricolo di fondamentale importanza strategica, che è la coltivazione di un fiore senza il quale la guerra non la si può fare

  • Un fiore?

  • Si. E’ la coltivazione del cotone. Dopo l’epoca della polvere nera e delle prime armi da fuoco, tutto ciò che spara, dalla pistolettina per signora del calibro 6,35, magari con le guancette dell’impugnatura in madreperla, fino ai cannoni navali da sedici pollici, che scagliano proietti da una tonnellata a più di 40 chilometri, tutto funziona con la nitrocellulosa, o cotone-collodio o fulmicotone che dir si voglia; gelatinizzata, plastificata, variamente additivata in varie formulazioni, ma sempre di cellulosa nitrata si tratta.

La cellulosa si può ricavare da un sacco di cose: stracci, carta, legname, paglia ed anche scarti vegetali; ma la migliore, quella più adatta ad essere nitrata fino agli elevati contenuti di azoto, condizione che permette la necessaria stabilità balistica e di racchiudere grande potenza di fuoco in poco peso e poco spazio, è quella del cotone, meglio ancora se ottenuta dai filamenti corti del fiore di cotone, quelli che si chiamano linters.

Credo che pochi hanno la cognizione storica che, quando la sesta armata tedesca dilagò ad est e si spinse in profondità negli immensi territori russi, non era solo per arrivare presto al mar Caspio ed ai pozzi petroliferi di Baku ed abbeverare così i carri armati ed i mezzi, che erano soggetti a linee di rifornimento insicure e di migliaia di chilometri (e checché se ne dica, l’arma fondamentale per vincere le guerre è sempre stata la logistica), ma era anche per raggiungere le fertili e sconfinate pianure ucraine che, insieme all’Egitto ed agli stati meridionali del Nordamerica, sono i posti migliori al mondo per produrre cotone eccellente e di qualità “bellica”. Ma ciò che avvenne in un piccolo punto della carta geografica, dove c’era scritto Stalingrado, tra l’estate del 1942 e l’inverno del 43, cambiò completamente il corso delle cose e sicuramente della storia.

  • Grazie Parolini. Magnifica sintesi di storia, di economia e di chimica applicata. La faccenda della nitrocellulosa suppergiù la sapevo ma in nessun libro è spiegata così bene ed in maniera così interessante. Aggiungo solo una storiella; che l’invenzione della nitrocellulosa la si deve a un chimico tedesco dell’ottocento, o meglio a sua moglie, che era un po’ isterica e che stufa di vedere rovinato l’ennesimo camice da laboratorio, dal marito pasticcione, glielo buttò nel camino. Solo che il camice era di cotone ed era stato rovinato dall’acido nitrico (che quindi era stato nitrato), per cui dal camino si levò una vampa che incuriosì il chimico e da qui la scoperta. Ma, a proposito di guerra, lei la guerra l’ha fatta?

  • Grazie per la storiella. No, almeno non direttamente, ma non mi ero imboscato. La guerra l’ho fatta nelle Officine di Lochi, giù a Fossamastra e debbo dire che, forse, come sofferenze e come rischiare la pelle, anche se non è stato come al fronte, o per mare, non è stato manco tanto meno.

Glielo avevo detto che nel trentotto, nell’aria c’era già odore di guerra e la mia mamma, che aveva già dato il marito alla Patria, non aveva la minima intenzione di darci pure il figliolo. Povera donna, aveva avuto una vita difficile ed era più che comprensibile. Fu così che fece di tutto per convincermi a fare domanda per la Scuola allievi operai dell’Arsenale, a Spezia. Io avrei voluto fare il macchinista ferroviere, era il mio sogno da sempre. Da ragazzino, a Monzone passavo ore ad aspettare i treni che facevano la Garfagnana, per vederli passare. Per me era una grande emozione sentirli arrivare, con gli sbuffi di fumo che, approssimandosi, si levavano sempre più vicino al di sopra degli alberi, fino a che la locomotiva spuntava dalla curva, dopo il ponte sul Lucido e mi passava vicino, ansante, nera e possente, alitandomi una folata di fiato caldo e dall’odore che per me era inebriante, come il respiro di un animale straordinario. Per un attimo vedevo il macchinista o il fuochista, con le facce nere e gli occhiali tondi; li salutavo eccitato saltando a piedi uniti, loro mi rispondevano con un breve fischio. Trovavo che avessero un non so che di leggendario, come di eroico e avrei dato non so che cosa per essere con loro e come loro.

Così fui ammesso alla scuola. Avevo chiesto di fare il corso da macchinista, per i trenini che portavano il munizionamento dai depositi di Vallegrande alle navi da rifornire e che ormeggiavano al pontile Pirelli, ma la richiesta non fu accolta. Molto tempo dopo conobbi pure il motivo; era perché il mio povero babbo era secondo cugino della moglie di Amadeo Bordiga, quello che nel ventuno a Livorno aveva fatto la scissione dai socialisti e fondato il partito comunista italiano. I carabinieri scandagliavano a fondo fra parentele ed amicizie di tutti i dipendenti; io avevo l’attenuante dei miei sedici anni e del fatto che il Bordiga io non l’avevo mai manco conosciuto; ma bastò questo per farmi immatricolare come allievo artificiere, con un puntino rosso vicino al mio nome sul registro e mandato a Lochi, in un reparto dove potevo essere meglio controllato e dove avrei imparato e lavorato in un posto come quasi di punizione, sia per il tipo di lavoro che di disciplina, che al confronto quella militare era roba da collegio di signorine.

La scuola durava tre anni, durante i quali pressoché un terzo degli allievi veniva scartata, o perché abbandonavano trovando lavoro fuori meglio retribuito (imparerà a sue spese che nostre paghe sono state sempre storicamente basse) o per questioni di disciplina o per non aver superato le prove d’arte o gli esami di fine anno. Alla fine dei tre anni si partiva per il servizio di leva e dopo il congedo si veniva assunti, ma i più capaci o i più utili potevano essere dichiarati rivedibili dal Comando, quando riteneva più adatto che lavorassero nelle Officine.

  • Scommetto che l’hanno fatto rivedibile e che non ha fatto la naja

  • Beh, si, ma era perché ero stato assegnato ad un lavoro particolare, ora lo chiamerebbero strategico. Attaccavamo la mattina alle otto, già cambiati e pronti. Ma presentarsi all’orario preciso veniva già visto male, figurarsi un ritardo! Non ricordo di una sola volta di essere rimasto in Officina con le mani in mano, non era mica come adesso. La sirena del cessa lavori suonava alle cinque e poi di nuovo alle cinque e venti per l’uscita. I guardiani controllavano tutto, ci rovistavano negli armadietti, nelle borse e persino nelle nostre gamelle, con il pranzo che ci portavamo da casa e che al mattino lasciavamo negli spogliatoi, in un grande cassone con mezzo palmo d’acqua mantenuta calda, in attesa della mezzora per il pasto di mezzogiorno. A volte se qualcuno si portava qualche manicaretto particolare, magari avanzato dal pranzo della domenica, spesso lo trovava “assaggiato”; ma nessuno reclamava.

Le cattive note fioccavano; per esempio per farsi trovare inoperoso o, peggio, a chiacchierare od anche se, a giudizio dei guardiani, ci si avviava in Officina al mattino con passo troppo lento od all’uscita con passo troppo svelto. Nel varcare il cancello all’uscita, ordinatamente in fila ed uno alla volta, ciascuno doveva tirare la maniglia di un dispositivo che si chiamava “l’imparziale” e che a caso suonava; chi capitava che suonasse veniva avviato in un camerino ed attendere il suo turno per una minuziosa perquisizione, “la fruga”, fatta dai guardiani. Così chi veniva da fuori, per il tempo che ci voleva per la fruga poteva anche perdere il treno per tornare a casa e se non ce n’erano altri o erano troppo tardi, si passava la notte in stazione o a casa di qualcuno, ed a quei tempi i telefoni per avvisare la famiglia non è che fossero tanto diffusi.

Durante l’orario di lavoro per uscire dall’Officina e per qualsiasi motivo, si doveva chiedere il permesso al Capofficina e farsi dare la “sterlina di transito”, una specie di medaglietta d’ottone punzonata che si appuntava sulla tuta e che ogni Officina aveva in dotazione in numero di due o al massimo tre; chi veniva beccato fuori dall’officina senza la sterlina sulla tuta, significava che non era autorizzato ed erano guai seri. Le latrine poi erano fuori ed anche parecchio distanti e guai ad avere la diarrea o essere di vescica debole o avere il vizio di fumare, anche perché l’Ufficiale Dirigente si faceva dare dal caposquadra il calepino dove erano segnati gli allontanamenti con gli orari e se superavano quanto lui e secondo il suo giudizio riteneva ragionevole, si correva il rischio di non trovare la propria cartella da timbrare all’indomani e di tornarsene a casa. Significava essere sospeso e se recidivo anche licenziato. Si, anche perché nessuno era tenuto a darti le spiegazioni, che però poi venivano tutte scritte negli ordini del giorno quindicinali ed affissi al quadro, dove comunque non c’erano solo le note di demerito con i motivi e le multe, che erano fino a quattro ottavi della paga giornaliera, ma c’erano pure, ed erano molte, le note di compiacimento e gli elogi, che quando superavano i tre in un anno facevano scattare il soprassoldo; era poca roba ma la soddisfazione era tanta.

E’ strano ma forse è anche normale che io ricordi quel periodo come il più bello della mia vita. La disciplina poteva sembrare esagerata, ma in fondo è stata scuola di vita, secondo me positiva e non era mai fine a se stessa, perché applicata al lavoro ci formava il carattere e si diventava uomini. Sperimentavamo le più belle amicizie e maturavamo insieme la coscienza della responsabilità e di fare il proprio dovere, nel rispetto dei ruoli, delle regole e, soprattutto, del lavoro. Era molto appagante sentirsi “squadra”, ognuno con la propria individualità e percepire il fatto che più crescevamo professionalmente, più si veniva considerati e rispettati per quello che eravamo in grado di fare, ti motivava la voglia di migliorare sempre. E’ stato bello.