In un momento politicamente così fluido, e colpevolmente distratto da beghe di infima lega, passa quasi sotto traccia l’iniziativa turca, volta ad ottenere l’ingresso a pieno titolo nei Brics. A ben vedere non si tratta di un exploit così imprevisto, ma di un ultimo passo preceduto da espressioni politiche di volta in volta sempre più di rottura e di debole propensione alla preservazione della stabilità. Ankara avverte di poter essere l’interprete di un eccezionalismo anatolico, tuttavia non così facile da gestire per un Paese che, tra l’altro, deve fare i conti con difficoltà economiche perduranti ed una politica interna che ha espresso sentimenti contrastanti nell’ultima tornata elettorale.
Che Ankara intenda spezzare quello che avverte come un giogo occidentale è comprensibile, che intenda farlo ponendosi un altro pesantissimo basto un po’ meno. Come è palmare che in politica internazionale non esistano spazi vuoti, è altrettanto scontato che nulla si acquisisce per grazia ricevuta, posto che in questo momento il bilanciamento economico dei Brics è tutto da analizzare, se è vero che a partire dalla Cina, la principale azionista, la situazione non è poi così rosea.
Insceniamo un piccolo psicodramma a carattere geopolitico: mentre l’Occidente, masochisticamente gongolante per l’ennesimo mea culpa, cerca superficialmente responsabilità subliminali, si potrebbe anche provare a vedere quanto e come la Turchia abbia contribuito, forte di una cultura politica che non sempre si accorda con gli standard dell’Ovest. Sia chiaro, l’Occidente non è certo esente da responsabilità, ma inquadrare la Turchia in un contesto politico-economico caratterizzato da spiccati autoritarismi (tanto per edulcorare la pillola) dovrebbe indurre a qualche riflessione, corroborata sia dalla constatazione dell’euforico entusiasmo russo, risollevato dai dispiaceri indotti dalle imprevedibili incursioni ucraine e dal poter contare su un sodale che controlla Stretti marittimi di particolare importanza per arrivare ai mari caldi, sia dal fatto che risulta al momento di difficile applicazione la politica del doppio forno. Siamo impietosamente onesti, quanto e cosa ha fatto la Turchia, al netto dei bizantinismi bruxellesi, per adeguare i propri standard alle realtà europee?
Il voler prendere parte attiva ai vari fora indirizzandone le politiche è proprio di un soggetto politico che fa della politica di potenza e della profondità strategica un credo intangibile; il problema è accertarsi delle capacità o, in subordine, della merce di scambio da offrire agli egemoni di maggior peso specifico. Se è vero che l’intento del Reis è quello di porsi in interposizione mediatoria est – ovest, ci sarebbe da accertarsi della solidità del ferro del suo vaso, a meno che la caratteristica ondivaga della sua politica non venga accettata supinamente anche in oriente, cosa che lascia con più di una perplessità, fermo restando che la posizione dell’Anatolia rende Ankara un possibile rentier state, ponte con le ricche regioni dell’Asia centrale.
Francamente riesce difficile intravvedere un multipolarismo turco capace di mediare tra Nato, Cina e Russia, cosa che peraltro dovrebbe indurre i Paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo a ben valutare ogni possibile evoluzione di un blocco geopolitico, i Brics, nato e sviluppatosi con chiari intenti anti occidentali.
Bloomberg non va tanto lontano dalla verità quando afferma che Erdogan intende intascare (levantinamente?) due ricompense: il rafforzamento economico con l’asse sino-russo, e trasformare la Turchia in un hub del gas proveniente da Russia e Asia centrale, coronando un sogno che alcuni paesi (vd. l’Italia), nemmeno riescono a vedere nelle loro imprese oniriche più sfacciate, senza contare che Ankara potrebbe riuscire anche nell’intento di divenire rampa di lancio per le auto elettriche di Pechino verso cui far valere gli accordi doganali UE. In fondo, un progettino non così malvagio, n’est ce pas? Ed a questo punto, perché limitarsi? Erdogan stesso non più tardi di pochi giorni fa ha ipotizzato l’ingresso nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, ipotizzando una base relazionale win-win abbastanza complessa, se non impossibile.
Posto che la politica sia attività di rara ferocia, e che quella internazionale lo sia ancor di più, non si riesce francamente a scorgere alcun intento caratterizzato da nobile diplomazia, così come dipinto dai soliti interessati clientes. Sia chiaro, questa è solo la prima puntata di una soap opera in stile smaccatamente neo-ottomano, come quelle che il soft power ancirano ammannisce quotidianamente sui canali commerciali; rimaniamo dunque in attesa di più strutturate reazioni atlantiche, ancorché viziate dalla debolezza elettorale di Washington, fino a prova contraria ancora il maggiore azionista.
Foto: Cremlino