La vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali statunitensi apre una serie di scenari sul fronte delle politiche di difesa per l'Europa che, in considerazione della lentezza dei Paesi del Vecchio continente sul tema, non possono essere considerati ottimali.
Al netto di valutazioni politiche su Trump e sul Partito Repubblicano a trazione MAGA, l'Europa dovrà fare obbligatoriamente i conti, se non con una sorta di "disimpegno" militare statunitense dall'altra parte dell'Atlantico, quantomeno con la pretesa di Washington che le principali potenze continentali europee - Francia, Germania, Italia - ed il Regno Unito si assumano maggiori responsabilità nel meccanismo di difesa comune.
Buona parte del sostrato intellettuale che ha sostenuto Trump, dai nuovi nazional-conservatori ai libertari, passando per i paleocon, guarda con scetticismo agli interventi militari, punta a ridurre la spesa per la difesa USA e la presenza all’estero, nonché a limitare gli impegni al di fuori delle zone strategiche vitali. Nel trumpismo si sono condensate tutte le critiche - escluse quelle provenienti dalla sinistra radicale - all'internazionalismo liberale ed al neoconservatorismo. E se nel primo mandato presidenziale Trump dimostrò di non essere un isolazionista "tout court", quantomeno può essere ascritto tra i “limitazionisti” e da essi è sostenuto.
Tuttavia, rispetto agli anni del “riflusso” obamiano e del primo mandato di Trump, due crisi, la guerra in Ucraina e quella latente nel Mar Cinese Meridionale, hanno riportato in auge quello che Marco Mostarda ha ben definito come "strategical whiggism", volto al rafforzamento delle alleanze tradizionali in Europa ed Asia, ma anche ad un rinnovato protagonismo internazionale degli Stati Uniti.
Tendenza consolidatasi durante il mandato presidenziale di Biden, che è stato connotato proprio dalle necessità di affrontare la crisi del sistema internazionale imperniato sull'egemonia (contestata) di Washington e dei suoi alleati occidentali. Il revisionismo, nella versione armata della Russia ed in quella mercantile della Cina, è una sfida palese per il blocco occidentale.
Il fallimento della "Great War on Terror" promossa da Bush aveva avuto come effetto l'emersione di una spinta limitazionista che ha avuto esempi lampanti non solo nel motto "America First" di Trump, ma anche nel rifiuto di Obama di intervenire militarmente in Siria contro Assad e, persino, nel drammatico scenario libico post-Gheddafi, dove la mancata gestione del "dopo" ha portato alla trasformazione della vecchia colonia italiana in uno Stato fallito. Senza contare che buona parte della teoria ha definito come "decennio perduto" per la politica estera americana il doppio mandato di Obama ed il "Pivot to Asia" come parte integrante dei progetti limitazionisti e di disimpegno prima ancora che un tentativo di riequilibrio strategico.
La "quiescenza" della NATO rispetto all'annessione della Crimea da parte di Mosca e l'accondiscendenza verso la politica economica espansionista della Cina (che è figlia anche di blande sanzioni da parte di Washington) hanno aperto la strada sia all'invasione russa dell'Ucraina che alle aperte provocazioni di Pechino contro Filippine, Giappone e Taiwan.
Proprio Taiwan è il banco di prova del revisionismo cinese, con Pechino che sta testando, con le sue esercitazioni militari nelle vicinanze dell'isola e la minaccia di blocco navale, la risolutezza degli USA nel voler garantire l'indipendenza di Taipei. Pur senza arrivare immediatamente al blocco effettivo dei traffici, che sarebbe foriero di una probabile guerra contro gli Stati Uniti, la Cina ambisce ad inibire la regolarità del traffico commerciale di Taiwan per spingere Washington a scoprire le carte.
Dinanzi a questo tipo di sfide, pensare che Trump possa cambiare radicalmente la postura statunitense su Ucraina, NATO e Taiwan, senza considerare le agende di diplomatici e militari sarebbe irrealistico. Quel che può avvenire è, invece, che Washington pretenda davvero dai Paesi europei di contribuire ai meccanismi di difesa collettiva, determinando, per le potenze che stanno imboccando la via della - per citare il professor Fabrizio Coticchia - "militarizzazione riluttante", Italia e Germania su tutti, una presa di coscienza sulla chiusura della "finestra di opportunità" garantita dall'ombrello securitario americano, ed obbligandoli ad impegnarsi seriamente, sul fronte militare, economico ed industriale, per la propria difesa.
Nei fatti, il ritorno di Trump alla Casa Bianca significherà maggiore attenzione per europei e alleati asiatici degli USA (la discussione quadripartita tra Stati Uniti, Regno Unito, Australia e Giappone sul Pilastro II dell'accordo sui sottomarini nucleari Aukus lo dimostra) verso il rafforzamento delle proprie Forze Armate e l'integrazione dei propri sistemi di difesa.
Va ricordato, comunque, che il "limitazionismo" di Trump ha generato l’accordo Stati Uniti-Messico-Canada, gli Accordi di Abramo, le rinegoziazioni con la Corea del Sud e con il Giappone, nonché l'avvio dell'aumento di spese militari degli alleati NATO. La vittoria del "limitazionista" Trump impone l'adozione di politiche non limitazioniste da parte degli alleati degli USA.
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