Il primo incontro bilaterale tra il Presidente del Consiglio italiano e il Presidente Trump finisce zero a zero. C’era da aspettarselo; in fondo quanto detto da Gentiloni a Washington è parte di un discorso buono per ogni tempo e per ogni presidente. Una chiacchierata all’insegna del “poco tengo, poco dongo” che con ogni probabilità entrambi si sarebbero risparmiati. Le dichiarazioni finali di Gentiloni lasciano intendere che l’asse atlantico fra USA ed Europa si sia rafforzato.
Sulla questione il dibattito è aperto. Il raffreddamento dei rapporti con l’Europa e l’abbandono di quella linea atlantica che gli USA hanno calcato dal 1945 in poi, era la spada di Damocle imposta al mondo dalla campagna elettorale di Trump. Le sferzate di zio Donald all’Unione e alla NATO si sono susseguite per un anno, fino a sfociare nel dubbio e nell’ossessione dei circoli più legati ai vecchi equilibri atlantici. In meno di tre mesi il neopresidente ha dovuto rassicurare America e non solo dall’ombra del Russiagate, sostituendo le figure più esposte (Flynn e Bannon su tutti) e facendo pubblicamente marcia indietro rispetto ai nuovi orizzonti che sembrava puntare. In sostanza, in poche settimane, lo staff di Trump ha provveduto a ricollocare il presidente su una posizione “antirussa”, decisamente più corretta politicamente per le lobbies politiche transatlantiche di cui Washington è il perno. Ciò che è vero però, non sempre corrisponde a ciò che si vede.
Che gli USA se la intendano con la Russia più di quanto faccia comodo far credere, è evidente. Basti pensare che la Exxon, tramite il Segretario di Stato Tillerson (suo ex manager) ha chiesto espressamente di poter aggirare le sanzioni a Mosca per stringere con la russa Rosneft. Le dichiarazioni di Gentiloni quindi, sono un ritornello già ascoltato, che lasciano l’Italia nel ruolo di cucciolo dell’Alleanza, sempre pronto a correre e ad adeguarsi. La sensazione è che ancora una volta i giochi importanti si facciamo altrove.
Pur nell’abulia del meeting, ci si aspettava però una qualche rassicurazione sugli scenari che ci sono più cari e che coinvolgono direttamente il nostro quotidiano. Proprio l’affaire Exxon-Rosneft ci catapulta sul quadro libico: Trump, per la gioia del nostro premier, ha detto che gli USA non s’impegneranno direttamente. Come dire: “adesso tocca a voi risolvere il pastrocchio”. Roma, che sulla questione immigrazione tiene molto al rango di più buona del reame, rimane col cerino in mano: le rogne del Mediterraneo e della sponda africana sono roba nostra. L’occasione sarebbe anche ghiotta se non fosse che i vincoli di bilancio menzionati da Gentiloni ci impediranno nei prossimi anni di andare oltre alla presenza simbolica in Africa e al perfezionamento del servizio traghetti a cui è stata obbligata la nostra Marina. Per essere protagonisti nella forma che la delega e il disimpegno trumpiano ci consentono avremmo bisogno di peso e di una continuità geopolitica che con ogni evidenza non abbiamo.
Voci di corridoio parlano del progetto di Trump per organizzare un vertice fra Haftar e Al Serraj, i due protagonisti della crisi libica già intercettati da Mosca. Il disimpegno americano in Libia sarebbe quindi militare ma non politico ed economico. Alla prossima cerimonia della campanella, il mite Gentiloni passerà il testimone, ma la sostanza sarà identica.
Siamo parte di un sistema che non prevede progetti nemmeno di breve durata. Cureremo i nostri interessi ancora una volta sulla scorta di quelli degli altri.