(Fanta-racconto di vita militare)
Il tramonto di quel giorno d’autunno era iniziato e non si erano ancora spenti gli echi della battaglia.
Il generale Garibaldi, ritto tra i suoi luogotenenti ed i portaordini valutava con lo stato maggiore i risultati della loro ultima offensiva militare, le cui alterne sorti non permettevano ancora di tracciare un bilancio attendibile della situazione.
Quello che invece appariva chiaro era che gli uomini erano veramente stanchi.
Tutti i santi giorni c’era una battaglia da fare e si sa che le battaglie non sono mai una cosa di tutto riposo. Anzitutto c’era da fare delle gran levatacce per sorprendere il nemico, che però facendo esattamente la stessa cosa non veniva quasi mai sorpreso; poi tutto il giorno in mezzo agli spari, alle cannonate, al fumo, ad occuparsi dei feriti ed a portar via i morti, mangiando un pezzo di pane quando era possibile fra un assalto e l’altro, insomma un gran lavoraccio. Alla sera poi non era possibile riposare decentemente, nessuno svago, perché c’era da curare i feriti, da pulire le armi, fare le guardie, i morti da seppellire, un po’ di zuppa cucinata alla meglio quando andava bene e poi pochissime ore di sonno sdraiati per terra.
Fu così che il grande nizzardo, visto che era venerdì decise di dare il fine settimana libero a tutta la sua truppa; quindi tutti liberi e niente battaglie sabato e domenica; si sarebbe ricominciato lunedì, magari a metà mattinata ma freschi e riposati.
Chi poteva ed abitava vicino, già si preparava per andare a casa; gli altri cominciavano a discutere animatamente con i compagni su dove andare, chi voleva farsi una bella mangiata, chi sentiva il bisogno di compagnia femminile, chi tutt’e due.
Anche l’eroe dei due mondi, allentata la tensione e sedutosi sul suo sgabello da campo (aveva ancora i postumi delle ferite d’Aspromonte), rivolse il pensiero a se stesso e su cosa avrebbe potuto fare nei prossimi due giorni.
Le vicende belliche avevano portato gli eroici garibaldini a combattere a pochi chilometri da Orte, dove viveva una vecchia zia del generale: zia Adelina. Era la sorella di suo padre, che per il nipote Giuseppe aveva sempre avuto un debole. Non avendo avuto figli gli aveva fatto un po’ da mamma, quando vivevano a Nizza dove Peppuccio (come lo chiamava lei), giovane e scapestrato dava un sacco di pensieri a sua madre che era sempre malata. Aveva poi sposato un marinaio, che però era morto in mare dopo neanche due anni di matrimonio. Si era risposata dopo quasi dieci anni di vedovanza con un funzionario della Manifattura Tabacchi dello Stato Pontificio, anch’esso vedovo, ed erano andati a vivere ad Orte, sede della manifattura.
Zia Adelina scriveva spesso al nipote, chiedendo sue notizie e rimproverandogli di non venire mai a trovarla, magari tra una battaglia e l’altra; nelle sue lettere (alle quali, in verità, il nipote rispondeva molto di rado) gli raccomandava sempre di essere prudente, di mangiare la verdura, di dire le preghiere la sera e di coprirsi bene specialmente quando sudava nell’impeto del combattimento (il leggendario poncho glielo aveva regalato lei per Natale).
Ma un altro possibile (ed in verità più piacevole) programma si frapponeva nella mente dell’eroe dei due mondi, alla visita a zia Adelina.
Si dava l’occasione che a Roma si trovasse Brigitte, ospite di un suo fratello monsignore, splendida quarantenne e quasi coetanea del generale. Brigitte era stata, a Nizza, il suo primo amore giovanile poi si erano persi di vista ma, come si sa, il primo amore non si scorda mai. Anche se a Roma non era aria per lui, essendo una città tanto grande ci sarebbe potuto andare benissimo, magari travestendosi da frate; con Anita non ci sarebbero stati problemi perché era andata a Campobasso a far da madrina al battesimo del figlio di una sua amica; quindi campo libero.
Fu così che, immerso nei suoi pensieri, non si accorse di avere vicino a se il fidato Nino Bixio, anche lui in momento di meritato rilassamento e con la mente finalmente sgombra da tattiche e strategie, il quale gli chiese dove sarebbe andato per il fine settimana. Ancora sovrappensiero il generalissimo rispose: "Ancora non lo so, o Roma o Orte", ma il devoto compagno di mille battaglie, che per via delle frequenti cannonate era ormai quasi del tutto sordo, chiese: "Scusa, come hai detto?" al che Garibaldi con quanta voce aveva in corpo ripeté: "O ROMA O ORTE!".
Fu così che un giovane ufficiale transitando da li per caso, recepì e con giusto, quanto commosso orgoglio riferì la cosa in maniera involontariamente inesatta, ma che come tale fu tramandata ai posteri e così trascritta nei libri di storia ed iscritta nelle tante lapidi commemorative di un grande padre della Patria.