Sono già passati quasi 20 anni ed ancora mi ricordo del sergente Muraglia, uno dei cuochi della Nave scuola “più bella del mondo”. Anche quell'anno, secondo una prassi interrotta solo dalle esigenze di "mostrar bandiera" nel Mediterraneo o - eccezionalmente - in mari lontani o lontanissimi, anche sotto l'equatore, l'attività estiva per l'addestramento dei cadetti dell'accademia e per le abituali attività di rappresentanza, si sarebbe svolta nel nord Europa.
Così, dopo aver messo la prora a ovest, con un solo scalo nelle calde acque del Mare Nostrum, la nave e il suo giovane equipaggio, avrebbero portato sulle coste atlantiche, quali consumati "ambasciatori in blu", l'immagine di una nazione, patria di uomini illustri e pregna di valori positivi.
La nave, senza voler recare offesa a nessuno, richiede sforzi enormi principalmente a due categorie di militari: i nocchieri, che portano il basto della manovra marinaresca che (con vele grandi come campi da tennis, un ponte in teak da “frattazzare” con olio di gomito e una quantità inimmaginabile di ottoni da tenere "a specchio" giornalmente) non è cosa da poco e i cuochi, che oltre alle operazioni di vettovagliamento in navigazione di una masnada di 400 cavallette (colazione, due turni di pranzo e cena, con tre mense distinte, merenda pomeridiana, pizza a mezzanotte, pulizia a lucido delle cucine e delle cambuse) in porto devono sorbirsi anche vini d'onore, pranzi, cene e cocktail di rappresentanza, feste equipaggio eccetera, tanto da poter fare, in porto, esclusivamente vita notturna (normalmente vengono ricompensati tollerando piccole sforature nell’orario di rientro obbligatorio a bordo).
Il sergente Muraglia era un ventenne smilzo dalla pelle olivastra, occhi neri sempre un po' interrogativi, che si esprimeva in uno strano italo-parteno-pugliese. Un grande lavoratore. Spesso però, ingannava il sottufficiale addetto alla mensa (detto in Marina “capo gamella”), annuendo per significare di aver compreso gli ordini e poi faceva come poteva. E il capo gamella lo portava a rapporto per lamentarsi che il sergente (siggiente, come diceva lui) aveva interpretato il suo "metti più sale nell'acqua" con un "per gli spaghetti segui la stessa ricetta del pollo al sale". E poi incominciava il piagnisteo "…e adesso, mamma mia, 'sta pasta non la mangiano manco li cani!" Insomma, doveva lavorare sotto stretto controllo, tuttavia con il suo fare mansueto, quel suo parlare sottovoce, con il suono che dalle corde vocali prendeva la via del naso anziché passare regolarmente per lingua e bocca, riusciva a comperarsi le coperture dei compagni e la benevolenza dei superiori.
Una delle caratteristiche della nave era di trasformare in un simpatico splendido bucaniere anche il più panzilineo marinaretto, agli occhi della fauna femminile locale, ovviamente. Quando imbarcai io, chiesi al collega che andavo a sostituire se fosse fondata la fama che mi era giunta all'orecchio. Mi disse che per non rimorchiare bisognava chiudersi nel proprio alloggio con più mandate, attraversare la nave passando esclusivamente per i locali interni e starnutire in continuazione davanti al gentil sesso con la bocca aperta, vaporizzando il più possibile, emettendo possibilmente anche fiati e rumori che mi astengo dal riferire. Osservando queste stringenti indicazioni, affermava sicuro, il rischio di abbordaggio si riduceva di un buon 40 per cento. Hurrà, avevo trovato la mia nave!
Anche il buon Muraglia non sfuggì alla regola. Sceso in franchigia in un porto francese del nord, vicino a Le Havre, dove la nave primeggiava in bellezza e maestà tra gli altri grandi velieri convenuti per un grandioso meeting internazionale, mise indosso la sua invisibile uniforme da capitano Morgan, attirando il quasi immediato favore di una bella normanna.
E fu amore, amore vero.
Il giovanotto, già da prima dell'alzabandiera (nel senso della cerimonia…) circolava con i biglietti di permesso, chiedendo, implorando permessini con quel suo italiano da "fratello De Rege". E non c'era nessuno che riusciva a resistergli. Se gli si diceva "ma no, non possiamo trattarti diversamente dagli altri" bastava aspettare solo cinque miseri scarsi minuti ed ecco che il comandante in seconda avrebbe subito chiesto spiegazione sul grave motivo di servizio per cui non si poteva dare quest'oretta al sergente. Insomma, era una battaglia persa. Dai e dai, sarebbe arrivato anche al ministro. O più in alto, se era il caso. Il tutto senza la minima violazione della rigidissima disciplina. Batti e ribatti, anche il ferro si piega. Doveva essere sicuramente questo il suo motto di famiglia.
La ragazza faceva ore di coda per poterlo incontrare sul lavoro. Lui le aveva detto di avvicinarsi al piantone e di fargli il suo nome, magari mostrandogli il biglietto su cui glielo aveva trascritto. Lei, una volta entrata, si piazzava sotto il ponte coperto di prora (detto "castello") sulla panchinetta antistante la barberia e aspettava che lui, a ogni piccolo intervallo possibile nel lavoro della cucina, si recasse da lei per mostrarle uno dei suoi famosi sorrisoni o, semplicemente, per darle un casto bacio sulla fronte.
Lei faceva l'università, forse legge. Così gli era sembrato di capire. E si inorgogliva alquanto nel farlo sapere. Poi, però, confidava ai compagni di aver paura di non poter sostenere il confronto con una ragazza così tanto più colta di lui. Tra me e me, pensavo che lui si sbagliasse, perché anche azzimato di tutto punto e con il miglior abito borghese, si vedeva che non era il tipo dell'aquila. Lei doveva volergli bene per quello che era. Forse era stata conquistata da quelle stesse espressioni da ultimo botolo della cucciolata che vedevamo noi grezzi marinai.
"Ma di che cosa parlate, quando siete insieme?" Provavo quasi vergogna a sentire i colleghi di cucina fargli questa domanda. Di che cosa parlavo io, con i compagni di "gallismo" quando, con il mio scarso inglese, mi intrattenevo con le turiste olandesi e tedesche che affollavano d'estate la riviera. "You know, moon, sand, this evening, guitar and fire on the beach. OK? I have a motorbike. Will you come with me? Nine o' clock here, Ok?" era il colloquio standard, da cui mi aspettavo un semplice "yes-no". Avrei dovuto fare l'imitazione di Colombo che conversa con i nativi, per comprendere ogni altra risposta! Di molte parole non avranno bisogno, pensavo.
E invece lui riferiva che i loro incontri consistevano in passeggiate chilometriche in cui lei - in un francese pronunciato così lentamente da sembrare un italiano accentato male - lo interrogava, probabilmente, sui grandi bisogni dell'umanità, sugli sviluppi della politica internazionale, sull'imperialismo americano, sugli esperimenti atomici francesi, e così via; e lui, probabilmente - adottando la tattica di normale impiego nel rapporto moglie-marito appresa dai genitori - semplicemente annuiva oppure rispondeva per quel che riusciva a capire "la guerra io non c'ero ma ce stà n'amico mio di Massafra ch'è stato nel golfo" oppure "mò ce fermamm' che tengo famm".
Povero Muraglia! Venne, infine il giorno della partenza. La banchina era affollata da una moltitudine di signore e signorine (per la verità, quella volta c'era anche un signore vestito in modo piuttosto sgargiante, ma salutava verso il vuoto. Le malelingue pensarono subito al tizio straniero che avevamo a bordo). Tra esse anche lei. Si erano lasciati con la promessa di una fitta corrispondenza e di un ritorno sul luogo del delitto per Natale.
Il Muraglia ritornò il buon lavoratore di sempre. Con uno sguardo un po' più triste del solito, che amplificava quell'aria da cuccioletto con cui si apriva le porte dell'affetto di tutti. Passò un intenso settembre di mare e fatica. Venne ottobre e il rientro in Italia. Aggregati alla mensa di terra, anche i cuochi poterono un po' tirare il fiato. E giù licenze! Lui però restò al pezzo. Doveva far arrivare dicembre. Poi, sarebbe tornato in Normandia. Nel frattempo, finiti i turni di cucina, se ne stava nella sala convegno a girarsi tra le mani le lettere di lei. Sulle buste facevano bella mostra dei bei cuoricini rossi. Lui non capiva bene che cosa lei gli scrivesse, ma non voleva far leggere le sue lettere a nessuno. Però si appoggiava a questo o quel commilitone che, in inglese od in francese, avesse potuto scriverle: "Cara, io sono ritornato in Italia e sto bene. Come stai tu? Conto i giorni che mancano al mio ritorno in Francia. Appena so qualcosa di più preciso ti farò sapere".
Presentò la richiesta di licenza a fine ottobre. Libero dal 5 dicembre all'8 gennaio. Poi finalmente venne il gran giorno. Trentacinque giorni ininterrotti con la pupa! Prenotò il biglietto aereo Pisa-Parigi. Sbancò il conto, salutò "ce vedimm l'anno prossimo" e via. Ma già il giorno nove, ce lo trovammo davanti, a bordo, con la solita faccia buona e quell'aria di amante che spasima a cui ci aveva abituati convertita in quella di una tristezza che fa male. "Muraglia, che ci fai qui?" Domandai, domandammo.
Ci spiegò che era arrivato a Parigi. Che per andare in Normandia non capendo gran che bene le scritte, decise di prendere il taxi. Che arrivato là dovette praticamente vuotare il portafoglio nelle mani dell'avido tassista (ma che avido, bastardo proprio!). Che una volta arrivato era salito da lei di corsa e già non gliene fregava più nulla di quella merda del tassista. Che quando lui la incontrò, lei gli si aggrappò al collo che quasi glielo staccava, che lei si mise a parlare italiano, che lo aveva imparato per lui perché così finalmente potevano capirsi e parlare, parlare, parlare.
Che lui non capiva un accidente di quello che lei diceva, che a lui non gliene importava un accidente del partenariato per la pace ("ma che minchia è?"), che del G8 di luglio, dei giudici e di 'sto Berlusconi non ne sapeva nulla perché "stev' a bbordo". Ma perché lei non gli parlava più d'amore? Rimase fino all'otto mattina. Poi lei lo mise sul treno per Parigi. Gli scrisse un biglietto da dare al taxi fuori dalla stazione. Gli prestò i soldi per l'aereo. Lo scaricò come ai mercati generali si scarica un plateau di frutta marcia.
"Che puttana!" Pensammo e, quindi, dicemmo tutti. Lui, invece, sempre con il suo faccione da cucciolo con annessa pedata nel posteriore, ci riprese: "E' colpa mia. A' prossima vota m'imparo!" poi ci disse: "Mò me devo fa perdunà da Mimma, la mia ex. So' du mesi e miezz che nun me facce manco sentì. Stasira duorm a bbordo, ma ddimane presto presto piggh' o treno pe' casa. So' sempre in licenza, no?"
Poi mi prese il braccio e mi porto da parte: "Commissà, ve firmo nà quietanza, tutto quello che volete. Aggio a’ restituì i soldi del biglietto. Mi fate nu' favore? Me lo fate un vaglia internazionale?"
Nota dell'autore: il presente racconto è già stato pubblicato sul sito www.paginedidifesa.it (ora non più attivo). Ringrazio il generale Giovanni Bernardi, direttore di PdD, per l’ospitalità allora concessami.