"Il Signor Parolini" (seconda parte)

(di Gregorio Vella)
09/11/17

Qualche giorno dopo mi organizzai per un lavoro già programmato e da fare nei depositi dell’esplosivo di lancio. Si chiamava “saggio rapido”; consisteva nel verificare la stabilità dell’esplosivo (chiamata polvere ma che polvere non sembrava affatto, perché a forma di cilindretti a sette fori longitudinali, di colore verde scuro o nero, grafitati e più o meno grandi a seconda del calibro per la quale veniva impiegata) che era conservato sfuso all’interno di contenitori metallici ed ermetici.

Si faceva una volta l’anno, all’inizio dell’estate, esponendo per circa un’ora all’interno di essi una cartina imbevuta di un reattivo, che in presenza di vapori nitrosi e quindi di alterazione chimica dell’esplosivo, si colorava più o meno intensamente di blu.

Chiesi alla dottoressa, mia capo ufficio, se poteva fare autorizzare Parolini dal suo capo officina per accompagnarmi nei depositi e farmi da assistente; non ebbe un attimo di perplessità e mi fece un cenno di assenso, come per dirmi che ero un intenditore, telefonando lei stessa al signor Bogi che, ovviamente, non ebbe nulla in contrario.

Alla fine della breve telefonata la dottoressa mi disse, in maniera un po’ sibillina che Parolini era come una biblioteca di libri unici, solo che era blindata e la combinazione la sapeva solo lui e non la dava a nessuno: “ci provi lei”.

Così facendo, chiedendo cioè una collaborazione “esterna” all’ufficio, contravvenivo ad una delle tante regole tribali dello Stabilimento, non scritte ma rigidissime e rischiavo di alienarmi le simpatie dei miei tre colleghi anziani del laboratorio chimico, autentici volponi sotto la cui soffocante ala protettrice ero inevitabilmente finito e che si sentivano investiti della missione di istruirmi su tutto, mi avevano pure trovato un potenziale buon partito in paese, caso mai mi fossi sfidanzato. Fu da loro che appresi la vera pratica di laboratorio, fatta di abili virtuosismi di alta manualità e di incredibili trucchetti da banco; ma anche come si fabbricavano le cose più strampalate, provenienti da reminiscenze autarchiche, da un’ottima crema per le mani, al lucido da scarpe, alla brillantina per i capelli (che però non usava più nessuno).

Così ci ritrovammo con Parolini due giorni dopo, davanti al cancello della terza zona, che era il comprensorio dello Stabilimento destinato ai depositi del munizionamento e del materiale esplosivo.

La destinazione militare di quell’area, vasta oltre dieci ettari, aveva consentito la crescita naturale di un bosco lussureggiante ed incontaminato dalla presenza umana, curato solo con gli interventi minimi per renderne praticabili i sentieri che portavano ai depositi. L’accesso era consentito solo alla guardia armata ed al personale civile addetto alla movimentazione od al controllo del materiale. Ai lati del cancello d’ingresso facevano bella mostra due vetuste quanto inservibili glorie, due enormi proietti da 381, calibro da corazzata, alti quasi due metri e, sul pilastro in un’edicola votiva, il ritratto dell’immancabile Santa Barbara, che però in quell’immagine sembrava una strega, ma siccome era stato dipinto dalla figlia del potente e temuto Vicedirettore (detto “Richelieu”), quasi tutti trovavano che fosse bellissimo; tra meno di un anno, quando sarebbe andato in pensione, il quadro, sicuramente, avrebbe avuto molti meno estimatori, se non fosse stato direttamente rimosso.

Una breve quanto dovuta perquisizione da parte di Capece, il guardiano di turno, napoletano verace e la cui napoletanità non era stata minimamente scalfita dai trent‘anni di permanenza in Lunigiana; per accertare che non avessimo con noi fiammiferi o accendini.

  • “Parulì, mannaggi’ a morte, aspietteme cagg’ia i in pensione ccu te, avimm’a fa na festa c’ha da sembrà piedigrotta, mannaggi’a morte. O vulite nu surs’e cafè?”

  • “No Capece grazie, magari dopo quando usciamo e stai tranquillo che per la pensione t’aspetto, per i fuochi d’artificio poi non c’è problema, qui ce n’è quanti ne vuoi.”

  • “Ciao Parulì, si n’amico! mannaggi’a morte, e ciao pur’a te giuvinotto e salutam’ a Sicilia e Augusta, ci’aggia campato duie anne e tiemp’i uerra e l’aggio siempre dint’o core mio.”

Incominciammo ad andare e dissi:

  • Simpatico Capece, sembra uscito fuori da una commedia di De Filippo”,

  • Gìà! simpatico e bravo; ha notato che nel breve tempo di un paio di frasi ha detto > tre volte?, non è solo un suo intercalare e credo che per lui abbia un significato preciso, dovuto alla sua storia. Un po’ la posso raccontare io al posto suo, tanto non è un segreto e non gli faccio un torto, ma anche perché lui non la racconta volentieri, che ad un certo punto si mette a piangere e così non la finisce mai tutta. Capece ha fatto la guerra; l’ha fatta veramente, prima sugli incrociatori pesanti e poi sui sommergibili, da capo silurista. Nel quarantadue il suo battello era alla fonda in un’isola del Dodecaneso, appena rientrato da una missione. La gente ha un’idea piuttosto eroica della vita che facevano i sommergibilisti. In parte era vero ma sotto l’aspetto pratico, più che scomoda era proprio una vita d’inferno. Faccio un esempio banale, quasi nessuno dei nostri battelli aveva il lusso di possedere una latrina “confortevole”. I passaggi nello scafo resistente dovevano essere quelli minimi: portelli, tubi lanciasiluri, periscopi, asse dell’elica, timoni e gli sbocchi per le valvole delle casse zavorra; figuriamoci uno scarico liquami! troppo lusso. Così il battello doveva emergere oltre che per ricaricare le batterie con i motori termici, anche per consentire alla gente, Comandante compreso ed in alternativa all’uso dello spiacevole bugliolo, di fare i propri bisogni in coperta, tenendosi alla draglia e a volte con ogni condizione di moto e di mare; se proprio scappava quando erano in immersione, era eccezionalmente concesso farla nella sentina del locale macchine, con il piccolo vantaggio che l’odore dei fumi e del gasolio copriva il “resto”. Fu così che quella volta, mentre Capece era in coperta con le brache in mano, si avvicinò sottobordo un barcaiolo greco per provare a vendergli un polpo che aveva appena pescato. Era una bestia magnifica, quasi cinque chili, una pietanza con i fiocchi dopo giorni e giorni di gallette e scatolette. La contrattazione in greco e napoletano durò parecchio, ma alla fine si concluse ed il polpo trasbordò dalla barca al sommergibile, avviluppandosi al braccio di Capece che, come prima cosa e per renderlo più tenero, andò a poppa per sbatterlo a dovere. Impegnato in questa attività si accorse con ritardo che era scattato l’allarme aereo ed avevano dato la “rapida”. Si trovò con il polpo in mano sul battello che si inabissava mentre due aerei inglesi si avvicinavano a volo radente ed incominciavano a cadere le bombe. Al polpo andò bene perché anche se mezzo stordito riuscì a filarsela, andò bene pure a Capece che da buon nuotatore arrivò ad allontanarsi a sufficienza e salire sulla barca del pescatore, prima di essere ucciso dalle concussioni, ma andò male al battello e a quei poveri ragazzi che c’erano dentro; centrato da una bomba non riemerse più. Capece si sente ancora in colpa per questo e anche se di colpe non ne ha, ma il ricordo di questo fatto ed il senso incomprensibile del destino, gli invadono la vita ogni giorno. Cosa vuole, visto che siamo nati un giorno ci toccherà morire; in mezzo ai due eventi ci sta la vita con il destino che l’amministra e che può manifestarsi anche sotto le apparenze di un polpo di cinque chili.”

Pensavo al povero Capece mentre incominciavamo ad entrare nei depositi, secondo l’ordine che avevamo già programmato per l’esecuzione dei controlli. Io portavo la poca attrezzatura necessaria e Parolini portava con se un mazzo di chiavi enorme; quelle lunghe di ottone, come quelle dei carcerieri, erano per le serrature delle porte, quelle piccole erano per i lucchetti delle sbarre di acciaio poste trasversalmente alle porte d’ingresso.

Prima di entrare all’interno dei depositi afferravamo saldamente un maniglione di rame collegato a terra, per scaricarci dell’elettricità statica che potevamo avere addosso e che avrebbe potuto generare scintille. Lavorammo con una buona lena e coordinazione per tutta la mattinata: verifica delle quantità per lotto di esplosivo, scelta dei contenitori, escludendo quelli già testati l’anno prima; apertura dei tappi a volantino dei contenitori, costituiti da parallelepipedi in lamiera zincata da cento litri. All’apertura dei contenitori si avvertiva il leggero sfiato ed il caratteristico odore di alcol-etere, ricordo “industriale” della gelatinizzazione della nitrocellulosa all’atto della produzione; inserimento della cartina resa sensibile da una goccia di reattivo e che doveva essere tirata fuori e controllata dopo un’ora di esposizione; compilazione delle schede ed incollatura dell’etichetta autoadesiva sul contenitore, riportante l’anno di prova.

Una volta usciti, Parolini si era tolta una piccola mela dalla tasca e dopo averla divisa in due con un temperino, l’adagiava sopra un sasso, come fosse un posto convenuto:

  • E’ per una famiglia di ricci che abita lì dietro, è da un anno che ci conosciamo, adesso hanno i piccolini e non vengono perché non sono da solo.”

Ci eravamo avvicinati all’uscita sul margine sud della terza zona, attraversando la doppia rete di recinzione: doppia perché tutta l’area era perimetrata da due recinzioni continue, concentriche, una interna ed una esterna a distanza di tre metri l’una dall’altra; nel corridoio creato fra le due recinzioni, dal tramonto di ogni giorno e fino al mattino seguente e con ogni condizione di tempo venivano liberati i cani da guardia, stupendi esemplari di pastore tedesco, di alta genealogia e molto ben addestrati. Ne avevo conosciuto un paio, Miccia e Buran che, anche se veramente temibili e del tutto fidati nell’esercizio delle loro funzioni, quando non erano di servizio diventavano affettuosi e coccoloni.

Chi si occupava dei cani erano due operai con la qualifica di “ciniere”; Carroni, operaio anziano e un po’ musone e la Freddi, Marisa o meglio la Marisona, una gran bella ragazza di Serricciolo che per i cani aveva sempre avuto una passione esagerata; un giorno parlandone mi disse sinceramente che le sembrava inverosimile che per fare quello che le piaceva di più la pagassero pure, e che le dispiaceva di essere piuttosto atea e non avere abbastanza sentimento per ringraziare adeguatamente il Signore; ricordo che a quel punto, nel condividere con lei una bella e sincera risata, d’istinto l’abbracciai dandole un grosso bacio sulla guancia, puzzava un po’ di cane bagnato ma trovai che su di lei fosse un’odore delizioso. Non potevo non baciarmela, non capita spesso di incontrare fisicamente la felicità ed è verosimile che, come ha scritto Primo Levi e concordando pienamente con lui, guadagnarsi da vivere facendo con passione ciò che si ama veramente, sia la cosa che più si avvicina al concetto, di felicità, appunto.